Medical gaslighting
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“Non è nulla di cui preoccuparsi, non ci pensi più e vedrà che passerà da sé.”
“Le analisi di base non evidenziano anomalie, non è necessario proseguire con ulteriori esami.”
“Probabilmente è solo un po’ di stress, si riposi.”
“Sono comuni dolori mestruali, niente di grave, prenda un antidolorifico.”
“Vedrà che perdendo peso, tutto si risolverà.”
Frasi in apparenza innocue, rivolte a pazienti durante le visite e che a un ascolto distratto, pur risuonando di un paternalismo benevolo, non si rivelano apertamente ostili o dannose, eppure, proprio per questo, ancora più subdole e non sempre riconoscibili per quello che rappresentano, ossia l’esercizio del medical gaslighting, espressione informale inglese che indica:
una forma di manipolazione psicologica attuata da una figura professionale dell’ambito medico-sanitario, alimentata anche da pregiudizi e mancanza di conoscenza, che si manifesta quando la suddetta figura non prende sul serio o mette in dubbio in modo più o meno esplicito i sintomi riferiti dal* paziente, minimizzandoli o ignorandoli, insinuando che non siano reali o che magari derivino da altri motivi non imputabili a una patologia organica1. Il/la paziente resta senza diagnosi né terapie adeguate e può arrivare a dubitare di sé, della propria percezione e capacità di giudizio, sminuendo la sua stessa situazione. Quando reiterata, può portare a dilazionare o evitare del tutto le necessarie visite mediche, può essere concausa di una riduzione dell’autostima e, nel caso di invalidazione a livello personale, può essere annoverata tra i fattori responsabili della depressione.
Qualche tempo fa ho pensato che potesse essere utile pubblicare un post dedicato a questo fenomeno per dare uno strumento in più a chi ancora non lo conosceva o non sapeva dargli un nome ma ne subiva le conseguenze, al fine di prenderne coscienza e provare a tutelarsi. Per poter offrire una spiegazione puntuale, mi ero messa alla ricerca di fonti italiane da cui attingere, senza purtroppo riuscire a trovare nulla a livello teorico né divulgativo2, nemmeno cercando eventuali corrispettivi in italiano o termini afferenti a una sfera semantica simile.
Delusa ma ormai non più sorpresa, mi sono comunque chiesta come fosse possibile, trattandosi di un argomento molto sentito tra le mie amicizie spoonie e nei gruppi di auto mutuo aiuto. Tuttavia, all’epoca non mi ero concentrata su questo aspetto, anzi, senza perdermi d’animo, avevo già deciso che se questa informazione in italiano non c’era avrei potuto contribuire io nel metterla a disposizione e diffonderla. La definizione qui fornita è una mia proposta di teorizzazione in italiano del fenomeno, elaborata in base a quanto appreso dalle fonti consultate in lingua inglese, non è dunque presente in alcun testo istituzionale. Era e al momento resta un intervento “dal basso”.
Mentre il termine gaslighting, indicante un abuso psicologico all’interno di una relazione in cui una parte manipola l’altra con l’intento di farla dubitare di sé (in genere per trarne un beneficio personale), ha acquisito questa precisa connotazione in seguito a un’opera teatrale del 1938 e due film a essa ispirati — uno britannico del 1940 e l’altro statunitense del 1944, dal titolo Gaslight3 —, l’utilizzo dell’espressione medical gaslighting sembrerebbe attestarsi a partire dal 2018, anche se durante le mie ricerche non sono riuscita a risalire a chi l’abbia coniata. In ogni caso, segnalo alcuni contributi coevi determinanti per la sua creazione e diffusione: un articolo di «The Atlantic» in cui viene intervistata Sasha Ottey (advocate per i diritti delle persone con PCOS), ideatrice della locuzione health-care gaslighting; la menzione di Dusenbery nel suo Doing Harm di una forma profondamente invalidante di gaslighting, che occorre quando la medicina nega la realtà dell’esperienza corporea soggettiva, su cui ruota il concetto da lei introdotto del trust gap, con particolare riferimento all’esperienza del dolore femminile costantemente messa in discussione; un articolo di Kelly Nerdzilla Mendenhall, in cui l’autrice definisce medical gaslighting il fenomeno della minimizzazione dei sintomi riportati dai pazienti e, nello specifico, dalle pazienti.
Esempi di come può manifestarsi il medical gaslighting:
A partire dall’esperienza di persone affette da endometriosi, un recente studio osservazionale si è proposto di far progredire il discorso dalla semplice constatazione dell’esistenza del medical gaslighting, già investigata e accertata, a un primo tentativo di comprovazione ufficiale4 del suo impatto diretto sulla salute mentale, e dunque sulla qualità di vita, di chi lo subisce.
La ricerca analizza la correlazione tra invalidazione e riduzione dell’autostima e di come quest’ultima possa avere un ruolo nello sviluppo della depressione, distinguendo tra due forme: l’invalidazione dei “soli” sintomi (symptom invalidation) e quella agita nei confronti della persona (personalized invalidation), in cui la prima sarebbe concausa di una riduzione dell’autostima, mentre la seconda potrebbe suggerire l’ulteriore associazione con la depressione, mediata dalla riduzione dell’autostima; per poter confermare un meccanismo di causa-effetto, avverte Bontempo, andrebbe svolta un’indagine di tipo sperimentale.
In una nota aggiuntiva5, l’autrice evidenzia l’importanza di raccogliere dati statisticamente rilevanti da sottoporre nelle sedi decisionali, dimostrando la necessità di un cambiamento che promuova una comunicazione incentrata sull’esperienza de* pazienti. L’invalidazione costituisce un ostacolo concreto al perseguimento di questo obiettivo, mentre dal riconoscimento del fenomeno e delle sue conseguenze beneficerebbero tutti i soggetti coinvolti (pazienti, figure mediche, istituzioni, ecc.). Inoltre, un altro studio si è soffermato sull’interrelazione tra l’invalidazione del dolore (pain invalidation) e la depressione, mediata questa volta dalla vergogna, prendendo in esame oltre al contesto medico, anche i rapporti familiari e amicali, e proponendo riflessioni analoghe.
La lettura di questi testi, ai quali mi auguro seguiranno ulteriori approfondimenti, mi ha fatto riflettere su due questioni. Una riguarda la scelta terminologica: l’autrice del primo studio dichiara di preferire il termine invalidazione, in quanto lo ritiene più neutrale e con maggiore possibilità di essere approvato negli ambienti accademici. In effetti, per trasparenza e precisione, l’espressione medical gaslighting possiede un certo grado di inesattezza relativo al modo colloquiale con cui il termine gaslighting viene utilizzato nelle conversazioni tra non addetti: a volte viene meno la componente dell’intento volontario, che è invece il presupposto alla base di chi lo esercita, con il rischio che ogni opinione contraria alla propria venga interpretata come una forma di gaslighting, svuotandola di significato e impedendo a chi ne è vittima di poter riconoscere questo tipo di manipolazione. Con tale premessa, mi chiedo se sia importante sapere se sussista un’effettiva volontà da parte del curante di invalidare il o la paziente e, nel caso questo aspetto mancasse, il dolo sarebbe da considerarsi meno grave?
Possibili conseguenze del medical gaslighting:
Se la lettura ti ha affaticato, ti consiglio di fare una pausa e riprendere più tardi.
Non posso affermare che esista una strategia premeditata volta a silenziare i e le pazienti, posso invece rimarcare come l’invalidazione sia un meccanismo messo in atto in modo più o meno consapevole come risultante di più fattori, quali, in ordine sparso e non esaustivo: lacune nella conoscenza dei corpi che si discostano dal modello maschile bianco (per esempio, come si può diagnosticare una malattia della pelle su una persona nera, se gli studi sono stati condotti in prevalenza su chi ha la pelle bianca?), pregiudizi e stereotipi presenti nella società (di matrice misogina, sessista, razzista, omolesbotransfobica, grassofobica, abilista, sanista, classista, ecc.) e, dunque, anche nella scienza medica, di cui è difficile liberarsi perché per poterlo fare bisogna prenderne atto e adoperarsi per smantellarli attivamente, e che ricadono sul* paziente che non viene considerat* testimone affidabile del proprio dolore; la convinzione che il ruolo ricoperto garantisca in automatico una migliore conoscenza rispetto all’esperienza diretta del* paziente, la necessità di tutelare tale posizione imponendo la propria autorità, non ammettere di non essere abbastanza preparati…
Una serie di possibili motivazioni che forse non denota l’intento programmatico del singolo, ma che ha delle ripercussioni su coloro di cui ci si dovrebbe prendere cura. Perché indipendentemente dall’intento, conta l’effetto che il medical gaslighting ha avuto sull’individuo che lo ha subito, non basta ritenere di aver agito per il meglio, ma è necessario accertarsi di non aver arrecato un danno. Se poi si preferisce adottare un atteggiamento difensivo senza assunzione di responsabilità, allora sarà difficile continuare ad asserire la propria estraneità nel contribuire al mantenimento di uno status quo che non giova a* pazienti.
Prima di passare al secondo punto, mi riallaccio alla scelta terminologica da cui è iniziato il ragionamento. Nel riferirsi al fenomeno con il sostantivo invalidazione si predilige un termine riconoscibile, inequivocabile e universale, in cui l’agente non è esplicitato, mentre nella locuzione medical gaslighting si circoscrive il contesto in cui avviene l’invalidazione e si intuisce chi è ad agirla, rendendo evidente lo squilibrio di potere che c’è tra curante/sistema di “cura” e paziente. Forse è anche per questo che riscontra il favore delle stesse persone malate ed è diventata popolare negli ambienti dediti alla patient advocacy e alla sensibilizzazione.
Come tutelarsi dal medical gaslighting:
La seconda questione, lo prometto, più breve, riguarda il dibattito pubblico quasi assente in Italia su questo tema, quantomeno assente nei termini di consapevolezza e urgenza di uno smantellamento. Al netto di alcune derive e posizioni che minano l’autorità scientifica, senza però apportare alcuna valida alternativa, il medico continua a essere considerato la figura di riferimento in relazione al percorso di cura e rappresenta l’autorità in questo frangente. Se manca la sua validazione, sarà ancora più difficile ottenere un riconoscimento in altre sedi.
Ecco, nell’ambito delle “mie” malattie, cartina al tornasole ideale, noto una certa tendenza: quando in contesti ufficiali, quali convegni medici aperti al pubblico, si parla di minimizzazione dei sintomi, sembra sempre che a mettere in atto questo comportamento sia una figura quasi astratta, quel medico insensibile e/o impreparato, eccezione alla regola, che certamente non fa parte del simposio. E anche quando, a fatica, si ammette che potrebbe trattarsi di una pratica diffusa, il massimo che la categoria concede è la necessità di una più approfondita formazione sulla malattia in questione, senza dubbio essenziale, che però resterà infruttuosa e parziale, se non si mettono in discussione le possibili cause che hanno condotto a una certa situazione, come i bias impliciti a cui la classe medica non si sottrae. Attenzione, nel riconoscere il problema come sistemico, la responsabilità del singolo non viene derubricata, piuttosto si rende evidente come il sistema ne giustifichi/rafforzi la posizione.
In conclusione, è importante ribadire una presa di coscienza da parte di chi indossa il camice, rinnovando l’invito ad ascoltare chi si ha di fronte e ad affinare le competenze empatiche, la necessità di una formazione continua che tenga conto dei pregiudizi socioculturali (se la persona che si ha davanti non corrisponde a un’immagine precostituita di paziente, la responsabilità non è sua) e la capacità di ammettere di non sapere rimandando a figure più esperte, magari smettendo di canzonare le persone che, abbandonate a se stesse, vanno in cerca di una risposta online.
1 A prescindere dalla presenza o meno di una patologia organica, le legittime preoccupazioni del* paziente per la propria salute andrebbero comunque tenute in considerazione.
2 Con l’eccezione di studi o riflessioni che si soffermavano sull’invalidazione esercitati dal* paziente nell’ambito del suo rapporto con la malattia, lasciando poco spazio alle responsabilità della società e sorvolando sul ruolo chiave della figura medica.
3 La trama ha per protagonisti una coppia sposata da poco, in cui il marito manipola la moglie per appropriarsi dei gioielli che la donna ha ereditato dalla zia. Uno dei modi con cui l’uomo la inganna è attraverso l’abbassamento delle luci all’epoca a gas (da cui il titolo), che la donna riferisce al marito di aver notato e che lui nega stia avvenendo, inducendola a perdere la fiducia nelle proprie percezioni e rendendo la sua salute mentale sempre più instabile. A proposito di gaslighting, una nota amara: la casa cinematografica hollywoodiana che ha prodotto la versione più famosa dell’opera ha tentato di eliminare il film britannico chiedendo che tutte le copie venissero distrutte, in modo che il pubblico ne dimenticasse l’esistenza.
4 La ricerca accademica può aiutare a consolidare i saperi provenienti “dal basso” rendendo noto il problema al di fuori delle comunità già informate che si occupano di advocacy nell’ambito della salute.
5 La nota è contenuta nella newsletter di Nancy’s Nook del 7 gennaio 2022.