La testimonianza di Irene


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I contributi presenti nella raccolta “Storie di ordinaria isteria” mettono in evidenza episodi di medical gaslighting, discriminazioni e microaggressioni in ambito medico-sanitario, negligenza e violenza medica.

Ringrazio Irene per avermi affidato le sue parole. A te che leggi, chiedo di averne cura.

Prima di ammalarmi non avrei mai pensato che qualcosa come il medical gaslighting potesse esistere, né che potesse presentarsi in modo così frequente e sistematico. Avevo sempre visto lз medicз come figure autorevoli, il cui giudizio era insindacabile e avevo una concezione limitata ed impoverita delle malattie, per le quali immaginavo una degenza lineare e sempre adeguatamente supportata.

Eppure quando ho cominciato a non sentirmi più bene, mi si è prospettato davanti uno scenario del tutto differente. Nella sfortuna ho avuto anche la peculiare capacità di imbattermi in un dolore cronico scaturito da malattie invisibili, tanto all’apparenza quanto nei test diagnostici, e non riconosciute. Tutti fattori che contribuiscono a rendere il percorso ancora più duro e frastagliato di quanto già non sia.

Quando ho iniziato a stare male avevo quindici anni, ed è inspiegabilmente diffusa la concezione per cui giovane età e disabilità non possano coesistere. Dopo mesi che il dolore non accennava a passare, dopo aver effettuato visite, esami e provato qualunque farmaco il dubbio era cominciato ad insinuarsi: doveva per forza trattarsi di una fattore psicologico, anche il fatto che non potessi neppure essere sfiorata a causa dell’allodinia rafforzava questa ipotesi.

Le continue illazioni portarono a farmi dubitare della mia stessa percezione, poiché essere circondata da persone che ribadivano non avessi nulla inevitabilmente finiva per influire.
Ricordo ancora di quando un medico, quindi non un esperto della salute mentale, dopo cinque minuti di visita scrisse sul foglio dell’anamnesi che era certo soffrissi di una sindrome ansioso-depressiva. Oppure un’altra dottoressa che, mentre con voce rotta le raccontavo delle privazioni che subivo a causa della malattia, mi consigliò, con un sorriso di sufficienza, di uscire fuori, perché “non puoi passare tutto il giorno in casa attaccata ai genitori, devi vivere la tua vita”.

Così io stessa, a causa di ripetute indicazioni sbagliate, mi convinsi di avere un disturbo psicosomatico e pensai che lavorare sulla mia psiche fosse l’unica cosa da fare per “guarire”. Fu con queste premesse che iniziai la psicoterapia, non “aiutatemi a gestire un dolore cronico invalidante che impatta nella mia vita”, ma “c’è qualcosa di sbagliato in me che mi porta a stare male, voglio liberarmene”.
Auto-sabotaggio era la parola che veniva fuori più spesso durante la sedute, tanto che, non capendo cosa mi spingesse a danneggiarmi in quel modo, avevo cominciato a direzionare tutta la rabbia contro me stessa e ad odiarmi.

L’idea di tuttз lз fisioterapistз, chinesiologз, ortopedicз, neurologз, psichiatrз, psicologз era che fossi troppo concentrata sul dolore tanto da amplificarlo e che necessitassi di tornare alla vita normale, a fare le cose regolarmente, per poter stare di nuovo bene.
Non avevo bisogno di medicine e fisioterapia, dovevo comportarmi come una qualsiasi ragazza della mia età.

Così i momenti terapeutici si trasformarono in inopportune esortazioni a trovarmi un fidanzato, adottare un cagnolino, partecipare alla gita scolastica di trekking e uscire il sabato sera con le amiche. Io portavo loro il mio dolore chiedendo aiuto, in cambio ricevevo consigli fin troppo ottimistici su cose che non sarei stata in grado di fare.

Era tutto un girare attorno al vero problema che nessunə sembrava voler comprendere.

Pensando di essere la causa dei miei mali provavo smarrimento e confusione riguardo ai sintomi e se la comunicazione dellз professionistз della salute non era per prima chiara e comprensiva della mia situazione, come potevo aspettarmi che lз altrз mi credessero? Mi sentivo in colpa, non mi fidavo più di quello che provavo e avevo costantemente il terrore di star esagerando. Ancora oggi sento di non essermi del tutto liberata da questa subdola manipolazione.

Spesso in preda al panico scandagliavo ogni ricordo, ogni aspetto più remoto e apparentemente irrilevante della mia vita cercando disperatamente di individuare quel fattore trigger che mi avesse portata a sentirmi in quel modo.
Ma la malattia non si traduce in un volontario evitamento delle difficoltà.
Soffrire costantemente non indica mancanza di caparbietà e voglia di migliorare.

C’era una spiegazione organica a tutto quel dolore.
Non era colpa mia.
Non era sotto il nostro controllo.
Non bastava volerlo.
Ecco cosa avrei voluto che lз dottorз mi dicessero.


Per condividere la tua testimonianza, scrivi a ordinariaisteria@isteriche.com

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