La testimonianza di Cristina


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I contributi presenti nella raccolta “Storie di ordinaria isteria” mettono in evidenza episodi di medical gaslighting, discriminazioni e microaggressioni in ambito medico-sanitario, negligenza e violenza medica.

Ringrazio Cristina per avermi affidato le sue parole. A te che leggi, chiedo di averne cura.

Quando ho iniziato a riflettere sulla mia esperienza con il medical gaslighting, la prima cosa che ho pensato è stata: non ce la farò mai a condensare tutti gli episodi di cui sono stata protagonista negli ultimi dieci anni in così poco spazio. Quando il dolore diventa fido compagno di quasi ogni giornata, gli episodi spiacevoli in ambiente medico sono innumerevoli: l’attesa stessa di poter, finalmente, leggere nero su bianco una diagnosi è stata, in un certo senso, violenza.

I EPISODIO

Cinque anni fa, erano diversi giorni, forse più di una settimana, che provavo un dolore altro, diverso da quello già conosciuto, a livello vaginale, interno e profondo. Era iniziato con un banale arrossamento interno (santo specchio) e bruciore trascurabile, per poi diventare sempre più presente. Avevo il fortissimo sospetto che si trattasse di candida, nonostante non l’avessi mai avuta prima, non tanto per le relative scarse perdite, lontane da come mia madre le descriveva e da come persino il mio medico ribadiva dovessero essere, ma per il bruciore farcito di dolore, come se tra le labbra ci fossero manciate di spilli che ero costretta a schiacciare a ogni piccolo movimento. Al tempo la ginecologa che mi seguiva era quasi impossibile da rintracciare, non esisteva un servizio di consultorio, le prenotazioni per i tamponi vaginali erano da lì a 25 giorni, non sapevo cosa fare e ormai piangevo senza sosta. Ho deciso di farmi accompagnare al pronto soccorso più vicino. Faceva caldo ed era domenica pomeriggio, in triage, Gabriele, un bravissimo infermiere mi ha chiesto se riuscissi a fare le scale, per salire al reparto di Ginecologia e Ostetricia: mi stava offrendo con sincera preoccupazione una sedia a rotelle.

È stato l’ultimo gesto gentile ricevuto in quell’accesso al pronto soccorso.

Con fatica, accompagnata da mia madre, sono salita sull’ascensore per arrivare al III piano della struttura. Il silenzio dell’ingresso del reparto, interrotto solo dal vociare rumoroso delle ostetriche e delle infermiere, radunate tutte nelle stanze di guardia, caffè e tè. Non c’era il campanello, allora. Abbiamo dovuto bussare al vetro dell’accoglienza, solo dopo svariati minuti un paio tra loro sono uscite e, rivolgendosi a me, hanno detto “Ha perdite, signora?”, quando ho risposto che no, non ero incinta e non ero a rischio d’aborto, mi hanno indicato una confortevolissima sedia di legno nel corridoio e detto di aspettare. Ho aspettato per 50 minuti l’arrivo del ginecologo di turno, davanti a porte chiuse. Da una di queste sentivo provenire delle voci, ne è uscita una ragazza da sola, con aria smunta, subito rientrata all’arrivo del medico, riuscita poco dopo con delle gran pacche sulle spalle.

Era passata più di un’ora e nessuno aveva chiesto a me quale fosse il problema.

Quando finalmente il ginecologo mi ha fatta entrare in sala visite, la porta, che io tenevo aperta appositamente, è stata richiusa, senza troppe cerimonie, in faccia a mia madre. Qualche domanda di rito, non ricordo nemmeno quali fossero, nessuno sguardo alzato mentre parlavo, “spogliati e sali sul lettino”.

Quel “tu”.

Mi sono sentita a disagio, subito. Ancora di più quando, una volta stesa e con i piedi sulle staffe, faticando a tenere il bacino verso il basso e le ginocchia aperte (istintivamente, per il dolore si tende a richiudersi, a raccogliersi), mi è stato detto che era “troppo gonfia” per non provare dolore alla visita. Infatti, così è stato, lancinante. Violento, estenuante. Senza alcuna precauzione, attenzione o lubrificante. Ripetutamente perché non riuscivo a rilassare i muscoli e “così non riusciamo a vedere niente”. Al terzo tentativo l’ostetrica alla mia destra, di poco più grande di me, si è sporta su di me, con entrambe le braccia in modo da bloccarmi il busto con un avambraccio e una caviglia con l’altra mano. È stato un attimo molto lungo, in cui l’ho fissata negli occhi, la rabbia è salita alla testa ma non ho potuto muovermi. Razionalmente si è trattato di pochi istanti ma pieni di una umiliazione tale, come fossi un oggetto senza vita, raziocinio, volontà, solo della carne problematica da esaminare, in cui guardare dentro e da cui sentenziare, male, tra l’altro.  

Quando mi sono potuta rivestire, avevo le lacrime agli occhi, faticavo ad allacciare le scarpe e sono uscita con le stringhe slacciate, viola in viso. Non sono riuscita a fare altro che sottrarmi alla mano della stessa ostetrica che mi accompagnava alla porta, a sei passi dal lettino dove mi aveva tenuta ferma, dicendomi “cara per di qua”. Non aveva un cartellino identificativo, nessun adesivo con nome o cognome al taschino, nemmeno una penna, solo questi occhi grigi, fermi, giovani e i capelli scuri, legati in una coda. Non ricordo altro di quella visita. Ricordo solo la sensazione di violazione e violenza che nemmeno la doccia di un paio di ore dopo è riuscita a mandare via.

Era candida. “Bruttissima, bruttissima”.

Mi sono stati prescritti dei farmaci non ad ampio spettro e consegnata una prescrizione per il tampone senza priorità: il risultato è stato un aggravarsi della situazione, risolta drasticamente dopo settimane con una combinazione violentissima di antibiotico per bocca e terapia locale. Ci sono voluti tre mesi perché l’infezione svanisse, tre lunghissimi mesi di ulteriore dolore, bruciore e sensazione continua di essere stata debole.

II EPISODIO

Qui, luglio 2021. Pochi mesi fa.

Le diagnosi di endometriosi e adenomiosi ormai non sono più fresche, né un debole miraggio come nella testimonianza precedente, anzi, ormai sono tangibili nelle cinque cicatrici che porto addosso. E non solo.

In seguito all’intervento in laparoscopia per endometriosi III stadio, ho scelto di procedere per la crioconservazione degli ovociti in regime di medical freezing: storia lunga. Dopo il primo pick up, le cose non sono andate esattamente come ci si aspettava, dal rientro post ricovero. Il dolore e il gonfiore all’addome non accennavano a diminuire, le enormi difficoltà in bagno erano state il primo campanello d’allarme che qualcosa non stava andando nel verso giusto, nemmeno assumendo l’apposito farmaco per aiutare le ovaie a ritornare in sede e del volume adeguato alla fase del ciclo in cui ero. Così la domenica successiva al prelievo (quella della vittoria dell’Italia agli europei di calcio), ho scelto di farmi accompagnare al pronto soccorso, dopo un autonomo e fallito tentativo di cintura di sicurezza e retromarcia nel vialetto di casa.

Avevo paura. Paura perché quel pronto soccorso, quello specifico ospedale, era stato per anni teatro di rifiuti, di silenzi, di assenza di risposte e, soprattutto, di diagnosi, di discredito, di centinaia e centinaia di euro spesi per sentirmi dire che l’utero era pulito e che nulla, apparentemente, giustificava la mia necessità di vivere, quasi costantemente sotto analgesici di un certo calibro. Quella sera ho incontrato personale magnifico, gentile, svelto, premuroso, preparato, attento, rassicurante: ero sbalordita. Data la situazione a eco, sono stata ammessa alla stanza di osservazione breve intensiva, mentre si attendevano i risultati dei prelievi ematici e del tampone covid. In quel momento però l’unica emozione che mi attraversava era nervosismo, allerta: avevo intravisto in anticamera della sala visite la ginecologa che per anni aveva giurato di non riuscire a trovare nulla di anomalo nelle mie ecografie, nonostante gli accessi al pronto soccorso o i miei resoconti di mestruazioni che mi costringevano ad arrotolarmi sul pavimento del bagno, singhiozzando. Speravo che non si affacciasse o entrasse nella sala: non sembrava avere in carico nessuna delle altre due pazienti presenti a quell’ora.

Eppure, mentre ero distesa, che tremavo dal freddo in piena estate, coperta con dei teli monouso, le braccia piene di lividi, il catetere e la flebo a scorrimento, è entrata. Sulla soglia, ha detto di aver letto il nome in cartella, i capelli biondi, un flash. Le ho chiesto di andare via, era un mio diritto farlo, ma si è avvicinata al letto e ha continua dicendo: “Non sempre è facile diagnosticare l’endometriosi, sa. A volte non siete chiare”. Mi sono sentita sbagliata, ancora una volta, di nuovo, di fronte a lei che stava invalidando il mio essere malata, l’aver avuto bisogno di trattamenti. Sentivo montare la rabbia e la frustrazione, il dolore per percepire assenza di pentimento, di scuse, il non ammettere la sua incapacità, il suo errore, errore che mi aveva portata fino a lì, quella sera. Più si avvicinava, affermando dell’ambiguità della malattia, più ricordavo le sue risposte sdegnate e arroganti sull’inutilità del dosare l’ormone anti-mulleriano alla mia età.

Le ho richiesto di andarsene, volevo solo provare a riposare un pochino, sedare il freddo, la pressione alta, non ascoltare i monitor a cui ero collegata che cominciavano a suonare. Ancora una volta, come anni prima, le mie richieste a lei non sono state esaudite. Percepivo la sua bocca muoversi ma i suoni che ne uscivano mi arrivavano confusi, lenti. Volevo che sparisse, mentre restava. Gli allarmi insistenti hanno fatto arrivare le due ostetriche che si stavano occupando di me, in pochi attimi si sono rese conto di quale fosse il problema, il mio “Se ne vada, per favore” si sovrapponeva a scuse bislacche. Futili e violente. È bastato un fermo “Dottoressa, la paziente le sta chiedendo di allontanarsi. Può attendere in corridoio”, semplice, limpido, all’altezza. Ancora una volta, la mia voce non è stata sufficiente per mettermi al riparo, garantirmi sicurezza e rispetto. Salvifico e grato aiuto.


Per condividere la tua testimonianza, scrivi a ordinariaisteria@isteriche.com

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