Logo INFO Endometriosi

INFO Endometriosi

Il progetto collettivo INFO Endometriosi, che si occupa di advocacy e divulgazione sull’endometriosi in ottica intersezionale, è stato creato a settembre 2020 e ha esordito su Instagram e Medium ufficialmente a febbraio 2021, ufficiosamente era nei cuori e nelle teste di tre amiche da molto tempo prima. Nel corso dei cinque anni precedenti, io, E. (patient advocate dall’esperienza ventennale) e la paziente esperta The Badass Endo Nerd abbiamo ragionato sullo stato dell’arte dell’endometriosi in Italia e all’estero, a partire dalle nostre esperienze (il personale è politico) e avendo in comune un ideale di giustizia, la propensione allo studio e alla diffusione di informazioni supportate dalla ricerca, meglio ancora se patient-driven, e un pizzico di insofferenza nei confronti del modo in cui la questione endometriosi viene ancora oggi gestita da istituzioni, personale medico-sanitario, media, ecc. Quando ci siamo rese conto di quanto poco emergessero determinati aspetti e relative criticità, abbiamo deciso di provare a colmare quel vuoto ampliando la platea e condividendo le nostre riflessioni con chiunque avesse interesse per i temi trattati. Alla vigilia della pubblicazione dei primi contenuti, si è unita al gruppo anche Sara Beduschi, educatrice socio-pedagogica e dottoressa in psicologica clinica e della riabilitazione.

Nel 2022 abbiamo partecipato al podcast “Cara, sei maschilista”, per parlare di endometriosi e discriminazioni in ambito medico-sanitario. La puntata è disponibile gratuitamente su Spotify, Spreaker, YouTube, Apple Podcast e Google Podcast.

Archivio articoli

In questa sezione trovi gli articoli presenti sulla pagina Medium del progetto, in ordine cronologico di pubblicazione. Puoi selezionare il contenuto che ti interessa dall’indice sottostante.

Per non dire più “endo… che?”

Articolo originariamente pubblicato il 17 febbraio 2021.

Le domande sono la linfa delle scienze. Lo scopo non è conoscere le risposte, è l’atto di sollevare domande che fa progredire la scienza. Nelle scienze non si deve dare niente per scontato, domani potrebbe saltare fuori una scoperta che rende sbagliato o obsoleto tutto ciò che si è studiato fino a ora. Bisogna tenere la mente aperta ai cambiamenti e tenersi sempre aggiornati sulle nuove scoperte e soprattutto alimentare il dubbio con nuove domande.

Il problema con l’endometriosi è che la clinica si basa su teorie, solo teorie, nessuna di esse spiega davvero tutto. Un altro problema è che si sono basate le “cure” su teorie secolari che ormai vengono messe in dubbio da alcune scoperte, le quali però, anche a causa della mancanza di finanziamenti, non vengono ripetute per essere avvalorate e quindi restano ancora teorie, per giunta relativamente recenti, col risultato di destabilizzare le “cure” fino ad oggi date per questa patologia. I medici non sono inclini ad abbracciare idee diverse da quelle già apprese perché significherebbe cambiare la loro prassi, creata con anni di fatica. Dunque, le prime domande da cui partire potrebbero essere: le prassi finora usate sono efficaci? Stanno funzionando? È vincente restare su questa linea? O sarebbe meglio porsi nuove domande?

L’accesso a una corretta diagnosi e ai trattamenti adeguati, ancora oggi, non è uguale per tutt*. Le barriere socio-culturali che portano alla discriminazione delle identità minorizzate, si riflettono anche nella scienza e nella prassi medica. Il linguaggio e l’approccio medico sono lungi dall’essere inclusivi rispetto alle differenze di ciascuna persona (persone LGBTQIA+, identità razzializzate, ecc.).

Per farsi domande scientifiche bisogna avere gli strumenti e riuscire a comprendere ricerche, documenti e articoli scritti in una lingua straniera con un linguaggio altamente tecnico non è facile. Per questo motivo, l’obiettivo di questa pagina sarà quello di facilitare l’accesso alle informazioni scientifiche più recenti, in modo semplice e chiaro… poi spetterà a voi farvi le domande. In questo modo, ognun* potrà formarsi una propria idea in base a ciò che ha imparato e capito. E ora, iniziamo!

Endometriosi e inclusività: nessun* deve restare indietro

Articolo originariamente pubblicato il 3 marzo 2021.

La narrazione dominante sull’endometriosi porta a credere che essa sia una malattia che riguarda unicamente le donne. In un paese come l’Italia dove il binarismo cis eteronormato uomo/donna è ancora radicato nell’immaginario comune e dove ancora si confondono sesso attribuito alla nascita, identità di genere e orientamento sessuale in un unicum indifferenziato, la ricerca internazionale ci viene in aiuto per ampliare la visione socio-culturale e, soprattutto, medica dell’endometriosi. Esistono casi, seppur rari, di endometriosi in uomini cisgender che sono stati sottoposti a terapie estrogeniche e anche in persone intersex.

Le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ che presentano malattie ginecologiche sono spesso vittime di discriminazione, sotto-diagnosticate, talvolta costrette a fare coming-out durante le visite o a nascondere la propria identità che può essere non conforme al genere e/o con un orientamento sessuale diverso da quello dominante. Per esempio, nel caso dell’endometriosi, le esperienze di queste persone non sono documentate. Un’interessante ricerca della professoressa Cara E. Jones, nella quale si intersecano gli studi sulla disabilità e le tematiche femministe e queer, pone l’accento sulla necessità di considerare l’endometriosi come una malattia che riguarda il corpo nel suo insieme. Continuare a definire l’endometriosi come una malattia solo ginecologica, aumenta il rischio di bias e discriminazioni: si continua a tenere alta l’attenzione su questioni che vengono considerate ed evidenziate come tipicamente femminili quali le mestruazioni, la menopausa, l’infertilità etc. I reparti di ginecologia ed ostetricia sono dedicati e rivolti alle donne e anche qui si dà per scontato che la persona che entra in un reparto di questo tipo sia donna (identità di genere) e che, nel caso abbia rapporti, questi siano di natura eterosessuale (orientamento sessuale). Capite come una persona non binaria, queer, transgender, possa sentirsi a disagio a richiedere l’assistenza in un sistema fortemente genderizzato come quello esistente? Il rapporto “Endometriosis in the UK: time for change” riporta i dati rispetto all’endometriosi nella comunità LGBTQIA+ che risalgono al 2017 e che fanno emergere un quadro importante: 1 persona LGBTQIA+ su quattro ha assistito a commenti discriminatori da parte del personale sanitario; 1 persona LGBTQIA+ su 8 ha subito un trattamento inadeguato così come 1/3 delle persone trans*; il 20% delle persone non binarie e la stessa percentuale di persone disabili LGBTQIA+ ha vissuto queste esperienze almeno una volta e lo stesso vale per una persona LGBTQIA+ su cinque appartenente a comunità razzializzate; tre persone trans su cinque hanno detto di aver sperimentato una mancanza di comprensione delle proprie specifiche esigenze sanitarie da parte del personale medico-sanitario.

In uno studio del 2020 su 35 adolescenti transgender con dismenorrea, è emerso che di 7 pazienti sottopost* a laparoscopia, tutt* e 7 avevano endometriosi. Inoltre, 2 pazienti su 5 con endometriosi che avevano iniziato il trattamento con testosterone, hanno continuato ad avere una persistenza dei sintomi nonostante il trattamento combinato di testosterone e progesterone. Più della metà delle persone facenti parte dello studio ha abbandonato l’utilizzo della contraccezione orale per la gestione dei sintomi della dismenorrea: il motivo principale è stato la persistenza dei sintomi e anche l’aumento della disforia causata dal dolore al seno nonché dall’utilizzo di terapie anticoncezionali che sono pensate per le donne cisgender.

Anche la ricerca scientifica può incorrere in bias ed è influenzata dal contesto in cui si svolge, lo spiega bene Gloria Venegoni in un interessante articolo intitolato «Perché esistono così pochi dati scientifici sulla comunità LGBTQ+?»:

«Se negli ultimi anni è aumentato il numero di studi condotti in merito a tematiche relative alla comunità arcobaleno, la ricerca propriamente scientifica in questo ambito rimane ancora sottosviluppata, soprattutto in Italia. La questione è riconducibile a due cause principali: da un lato ci sono gli elementi strutturali, come le limitazioni e le riserve poste dalla nostra società quando si fa ricerca su argomenti potenzialmente controversi; dall’altra, ci sono le problematiche implicite nel topic stesso, di per sé particolarmente delicato da affrontare.»

In un recente articolo di Vice sono state riportate alcune testimonianze di persone LGBTQIA+ con endometriosi che raccontano le difficoltà di trovare ginecologi esperti che siano anche in grado di comprendere la situazione evitando di utilizzare un linguaggio inadeguato e/o discriminatorio. Alcune persone rinunciano alle cure dopo numerose esperienze negative, altre non rivelano la propria identità di genere per paura di ricevere un trattamento peggiorativo. Questo purtroppo succede anche per interventi quali l’isterectomia: se per le donne cisgender è un’operazione alla quale vengono sottoposte molto spesso, agli uomini trans è negato lo stesso trattamento.

È fondamentale che i professionisti sanitari siano adeguatamente formati in modo da non rimanere all’interno di una logica binaria poiché il rischio è quello di non porre le domande giuste e di non far sentire a proprio agio *l* paziente che potrebbe omettere determinati dettagli per la paura di essere giudicat*, deris* e discriminat*. Le persone della comunità LGBTQIA+, straniere e con disabilità affrontano battaglie ancora più dure per ottenere cure adeguate. Nel caso di malattie che coinvolgono anche la sfera sessuale, come l’endometriosi, non ci sono dati in Italia riguardo alle persone della comunità LGBTQIA+, le associazioni italiane che si occupano di malattie croniche si riferiscono unicamente alle donne quando si tratta di patologie di questo tipo così come accade durante i convegni nazionali. Difficile è anche trovare ginecologi che non basino i loro colloqui con *l* paziente sulla base degli stereotipi di genere: si dà spesso per scontato che la persona che si rivolge al ginecologo sia una donna poiché il sesso “biologico” e l’identità di genere, nella nostra cultura, coincidono automaticamente; così come si dà per scontato che la paziente abbia un compagno e che desideri dei figli; infine, il rapporto intimo viene inteso come rapporto penetrativo (pene-vagina), senza pensare al fatto che ci sono altri modi di sperimentare la sessualità. Questo induce molte persone ad avere paura di rivolgersi ai professionisti sanitari. La mancanza di formazione del personale sanitario e le buone prassi nella comunicazione medico-paziente rispetto a queste tematiche sono questioni che vanno affrontate con urgenza e non più ignorate. Se non lo avete ancora fatto, vi consigliamo di scaricare la guida gratuita del progetto Chroniqueers «Pazienti e utenti LGBTQ+ con malattie croniche. Costruire pratiche inclusive nell’accesso alla salute».

In questo spazio continueremo a parlare di questi argomenti e cercheremo di farlo nella maniera più inclusiva possibile senza lasciare indietro nessun*.

Fonti:

La malattia delle donne in carriera: debunking di un falso mito. Endometriosi tra razzismo e classismo

Articolo originariamente pubblicato il 19 marzo 2021.

Il seguente articolo è la nostra traduzione in italiano del podcast di Tight Lipped.

Il mito delle donne nere che non sviluppano endometriosi ha quasi un secolo e, purtroppo, persiste ancora oggi. Da dove viene quest’idea? Come mai l’endometriosi è stata etichettata come la “malattia della donna in carriera”? E perché è più difficile per le pazienti nere e della classe lavoratrice ricevere una diagnosi? L’episodio di oggi è il primo di una serie in due parti che esplora come la razza e la classe influenzino la diagnosi e il trattamento dell’endometriosi. Vediamo la storia dei medici che hanno creato questo mito e di un medico che, invece, ha dedicato la sua vita a sfatarlo.

Noa: Samantha Denae ha sempre avuto mestruazioni dolorose con sanguinamenti abbondanti e dolori che la costringevano ad assentarsi da scuola e dal lavoro.

Samantha Denae: Sembrava che nessun’altra avesse un ciclo orribile come il mio.

N.: È peggiorato quando aveva 16 anni, così ha provato a prendere diversi tipi di pillole anticoncezionali ma questo non l’ha aiutata. Il suo dolore era così forte che doveva pianificare la sua vita in base alle mestruazioni. Andava agli appuntamenti dal dottore e spiegava cosa stava succedendo.

S. D.: Avevo dei coaguli di sangue grandi come quarti di dollaro.

N.: Comprava pacchi da 40 assorbenti per un ciclo.

S. D.: E usavo l’intero pacchetto di assorbenti in un unico mese di mestruazioni, era davvero tanto sangue. Eppure non era allarmante o preoccupante per nessuno.

N.: I professionisti sanitari le dicevano continuamente che doveva essere qualcos’altro. Come una volta al pronto soccorso: le avevano fatto una flebo e poi era arrivato l’infermiere.

S. D.: E la prima cosa che ha detto è stata “Penso che tu sia incinta”. Io ho detto: “No, questo mi succede ogni mese. Ti giuro che non sono incinta”. “No, penso davvero che tu sia incinta. Solo che probabilmente non lo sai”.

N.: Il test di gravidanza era risultato negativo. Samantha se n’era andata con una prescrizione di ibuprofene. Era frustrata. Per quanto tempo avrebbe dovuto vivere con questo dolore intenso? Andò da altri medici che le dissero che forse erano fibromi. I fibromi sono tumori pelvici benigni, che possono anche causare forti emorragie e dolore. Ma i fibromi si vedono con un’ecografia e, nel suo caso, non si vedeva niente.

Come molte persone con cui abbiamo parlato, Samantha aveva iniziato a pensare che fosse tutto nella sua testa.

S. D.: Mi stavo dicendo “Sam non stai davvero così male”. Tutti lo stavano facendo sembrare come se fosse così normale avere delle mestruazioni così lunghe da farmi perdere giorni di scuola e lavoro.

N.: E poi un giorno, quando Samantha aveva 24 anni, il dolore era diventato così intenso che le sembrava di non poter camminare. Andò da sola al pronto soccorso dove le furono prescritte delle pillole di codeina. Il medico non le disse quante pillole avrebbe dovuto prendere. Così prese lo stesso numero di pillole che prendeva di solito quando assumeva ibuprofene.

La mattina dopo si era svegliata e aveva capito subito che qualcosa non andava. Aveva le vertigini e la nausea e questi non erano i suoi soliti sintomi mestruali. Ha guidato di nuovo fino al pronto soccorso ed è andata in bagno.

S. D.: E sono dovuta uscire dal bagno e andare in accettazione e dire “Signora, morirò qui dentro se non va a chiamare qualcuno, ho preso tutte queste pillole di codeina, qualcosa non va, ho bisogno che qualcuno faccia qualcosa.”

N.: Samantha era in overdose da codeina.

Un altro dottore era venuto a vederla. Ha dovuto farle un’iniezione di adrenalina per aiutarla a rallentare l’azione del narcotico. Samantha fece il suo solito discorso su quanto fossero terribili le sue mestruazioni — la stessa cosa che aveva detto a tanti medici prima. Ma questa volta il dottore le fece tre domande.

S. D.: Prima mi ha chiesto se le mie mestruazioni fossero debilitanti. Mi ha chiesto se avessi dolore durante i rapporti sessuali e se avessi problemi ad andare in bagno e ho risposto di sì a tutte e tre le domande. E mi ha detto “Penso che tu abbia l’endometriosi”.

N.: L’endometriosi, per abbreviare “endo”, è una condizione in cui il tessuto simile al rivestimento dell’utero cresce in altre parti del corpo. Può causare mestruazioni molto dolorose, spesso il dolore è così intenso che le persone non possono andare avanti con la loro normale routine, come Samantha. I sintomi includono nausea e problemi digestivi, dolore pelvico cronico, dolore durante i rapporti sessuali e infertilità. Così il medico del pronto soccorso aveva voluto vedere se Samantha avesse alcuni di questi sintomi.

Le diede un opuscolo sull’endometriosi. Avrebbe dovuto sottoporsi ad un intervento chirurgico in laparoscopia per avere la conferma. Samantha era sollevata di avere una diagnosi. E, tuttavia, era sconvolta perché nessuno dei suoi precedenti medici aveva menzionato questa possibilità, specialmente per il fatto che l’endometriosi è piuttosto comune. 1 persona AFAB su 10 ce l’ha.

Perché ci sono voluti diversi viaggi al pronto soccorso e quella che sembrava solo una coincidenza, cioè che lei fosse capitata con questo medico e un’overdose di codeina, per ottenere una diagnosi?

S. D.: Molte persone non credono che l’endometriosi esista nelle donne nere. Pensano che sia una malattia che le donne nere non possono avere, come se fosse invisibile per loro.

N.: Questo è Tight Lipped, una conversazione pubblica su un tipo di dolore considerato privato. Sono Noa.

In questo programma facciamo grandi domande sul dolore cronico vaginale e vulvare e sulle disfunzioni del pavimento pelvico. Parliamo di dolore durante i rapporti sessuali e di vergogna, nonché della politica che circonda queste condizioni che spesso teniamo segrete.

Abbiamo sentito molte storie su come il sessismo e i pregiudizi di genere influenzino le esperienze de* pazienti quando cercano assistenza. Ma il genere non è l’unico fattore che rende difficile ottenere l’assistenza sanitaria di cui si ha bisogno. La razza e la classe giocano un ruolo enorme nel plasmare le nostre esperienze all’interno del sistema medico. Anche se ho trovato medici che mi hanno respinto, ho beneficiato del privilegio di razza e di classe in ogni passo del mio percorso.

Nei prossimi due episodi, parleremo di un problema sanitario che per anni è stato influenzato dal razzismo, dal classismo e dal sessismo: quel problema è l’endometriosi. Nell’episodio di oggi, ci concentreremo sulla storia della diagnosi. In particolare, il mito delle pazienti nere e della classe lavoratrice che non sviluppano l’endometriosi. Racconteremo la storia dei medici che hanno creato questo mito e di un medico che ha dedicato la sua vita a sfatarlo.

N.: Ci sono dibattiti e controversie su quasi tutto ciò che riguarda l’endometriosi e la sua storia ma sappiamo che questo particolare mito ha avuto origine negli anni ’30. Dopo la prima guerra mondiale, c’erano molta preoccupazione e panico sociali negli Stati Uniti per il calo delle nascite, soprattutto tra le donne di classe sociale più elevata. Poiché c’erano più opzioni contraccettive, era possibile aspettare più a lungo per avere figli. I ricercatori prestavano attenzione agli ormoni e alla fertilità.

Uno dei ginecologi più importanti dell’epoca era il Dr. Joseph Vincent Meigs che stava trattando pazienti per l’infertilità. Nel 1938, scrisse un editoriale su come molte delle sue pazienti avevano sviluppato l’endometriosi.

Olga Bougie: E la sua opinione era che l’endometriosi fosse una malattia delle classi benestanti.

N.: Questa è la dottoressa Olga Bougie. È ginecologa e docente alla Queen’s University di Kingston, Ontario. Dice che il dottor Meigs ipotizzò che l’endometriosi fosse in aumento perché le donne dell’alta società si sposavano più tardi e ritardavano la gravidanza. Ha descritto l’endometriosi come una malattia causata dallo stile di vita.

Kate Seear: E che forse questo stava causando danni ai loro corpi in qualche modo, perché qualcosa di innaturale, secondo lui, stava accadendo….

N.: Questa è la professoressa Kate Seear, autrice del libro “The Makings of a Modern Epidemic: Endometriosis. Gender and Politics”.

K. S.: Le donne moderne non stavano rispettando gli obblighi di natura e, quindi, nella sua mente, questo è il motivo per cui questa malattia si era sviluppata.

N.: La professoressa Seear scrive di come il dottor Meigs fece dei paragoni tra le sue pazienti e le scimmie.

K. S.: Scrisse che “la scimmia si accoppia non appena diventa maggiorenne e si riproduce finché ne è in grado… visto che le donne hanno la stessa fisiologia deve essere sbagliato rimandare la procreazione”….

N.: Il dottor Meigs disse che gravidanze precoci e frequenti fossero la cosa più naturale da fare. Attribuiva l’endometriosi alle decisioni riproduttive delle sue pazienti. Credeva che le donne delle classi più agiate sviluppassero l’endo perché avevano lunghi periodi di mestruazioni ininterrotte. La soluzione? Dovevano rimanere incinte prima e avere più figli.

K. S.: Molti dei suoi scritti negli anni ’30 e ’40 furono alcune delle prime cose mai pubblicate sulla patologia ed ebbero una grande influenza su altri professionisti e poi sui ricercatori e sugli scienziati negli anni successivi.

N.: L’idea che la gravidanza sia la risposta all’endometriosi è ancora oggi pervasiva. A volte la gravidanza può mascherare i sintomi perché non si hanno le mestruazioni. Così il dolore mestruale e il sanguinamento abbondante possono scomparire per un certo periodo, ma solo alcune pazienti trovano sollievo. E non è chiaro se la gravidanza aiuti l’endometriosi a lungo termine. Eppure è quello che alcuni medici raccomandano oggi e la dottoressa Bougie dice che è la stessa cosa che Meigs sosteneva negli anni ’30 e ‘40.

O. B.: Meigs aveva un certo rilievo nei media popolari a quel tempo. E così le sue opinioni, che erano molto forti, ebbero davvero un’ampia diffusione e durarono a lungo.

N.: Cosa significava questo per coloro che non ricevevano una diagnosi? O anche per le pazienti a cui era stata fatta la diagnosi e a cui era stato detto di rimanere incinta? L’endometriosi è una malattia devastante. Le persone affette da endometriosi vivono con dolore cronico, infiammazione e disfunzioni organiche. Spesso devono saltare la scuola o lasciare il lavoro. È una malattia progressiva, più a lungo una persona resta senza diagnosi e non viene trattata, più questi sintomi peggiorano. L’endometriosi non trattata può causare infertilità e difficoltà di concepimento.

K. S.: Generazioni di donne provenienti da background particolari, non hanno mai ricevuto una diagnosi di endometriosi, di conseguenza si sono viste negare l’assistenza sanitaria e il sostegno, hanno vissuto una vita di notevole dolore e sofferenza che è a dir poco un’assoluta tragedia.

N.: Quindi il dottor Meigs stava diffondendo l’idea che l’endometriosi fosse una malattia specifica delle donne istruite e benestanti. Le sue teorie non erano controverse all’epoca ma col senno di poi possiamo vedere che molte delle sue idee erano davvero problematiche. Un tema chiave nei suoi scritti era che le coppie della classe agiata si riproducevano ad un tasso inferiore rispetto alle coppie a basso reddito.

K. S.: C’era la preoccupazione che, come conseguenza di questi modelli riproduttivi, la razza bianca e le classi privilegiate della società bianca si sarebbero estinte.

N.: Si scopre che una delle vere preoccupazioni di Meigs riguardava il futuro della società bianca privilegiata. Questo accadeva in un momento in cui i ricchi bianchi americani erano nel panico per la continuità della razza bianca. Meigs invitò i suoi colleghi medici ad incoraggiare i loro ricchi pazienti bianchi ad avere più figli.

K. S.: Stava parlando ad un pubblico di medici in gran parte bianchi e, quindi, quando parlava delle “nostre famiglie” penso che possiamo prenderlo come un eufemismo per la cittadinanza bianca, colta e dell’alta società.

N.: La maggior parte delle pazienti del dottor Meigs erano bianche. E lui non parlava esplicitamente di razza. Tuttavia, le sue teorie divennero la base per le idee razziste che si svilupparono e rimasero in auge anche dopo la sua morte. Dipingere l’endometriosi come la condizione di una donna bianca ha reso molto più difficile per le pazienti nere ottenere cure e trattamenti. A maggior ragione quando queste teorie entrarono nei libri di testo medici che a quei tempi erano una risorsa cruciale. La dottoressa Olga Bougie dice che i libri di testo usavano termini come “immunità razziale”.

O. B.: Immunità razziale: cioè che le donne nere erano immuni allo sviluppo dell’endometriosi, quindi, affermando la razza come un fattore che contribuisce in modo determinante.

N.: I libri di testo e la letteratura medica dicevano che essere bianche era un fattore di rischio per l’endometriosi.

K. S.: I medici si dicevano l’un l’altro, essenzialmente, di non preoccuparsi di cercarla perché “tanto non la troverai, loro [le donne nere] non possono svilupparla”.

N.: Uno studio del 1951 all’Harlem Hospital di New York affermava che l’endometriosi era quasi inesistente tra le pazienti nere.

K. S.: Non era solo una specie di mito, ma era diventato un dato scientifico perché gli scienziati e i medici non documentavano nessuno di questi casi e così quell’idea si è ripetuta e riverberata nel corso della storia.

N.: Nel 1955, un altro studio a New Orleans concluse che le donne nere e tutte le donne di altre razze ed etnie avevano un basso tasso di endometriosi.

O. B.: Erano l’istruzione superiore e “lo stress della vita moderna e della civilizzazione” ad avere un impatto sproporzionato sulle donne bianche ed è per questo che avevano più probabilità di sviluppare l’endometriosi.

N.: Lo studio del 1955 sosteneva addirittura che nel momento in cui le afroamericane avrebbero avuto accesso a un’istruzione migliore e a lavori più remunerativi, anche loro sarebbero state a rischio di sviluppare l’endometriosi.

Per essere chiari, altre ricerche negli anni ’50 dicevano il contrario, cioè che l’endometriosi si verificava con gli stessi tassi tra pazienti nere e bianche. Gli studi degli anni successivi hanno confermato che l’endometriosi ha la stessa prevalenza in tutte le razze e classi sociali. Eppure, il mito è persistito nel tempo. Negli anni ’60, ’70 e ‘80.

Presentatrice radiofonica: Per coloro che hanno letto il suo best-seller “It’s Your Body”, una guida alla ginecologia, il dottor Niels Lauersen è diventato sinonimo di un nuovo atteggiamento verso le donne come persone e come pazienti informate.

N.: Questo è un programma radiofonico del 1982 dal titolo “A Woman’s Place”.

P. r.: Nato in Danimarca, si è laureato in medicina all’Università di Copenaghen.

Rimanete con noi mentre il dottor Lauersen e io discutiamo dei modi in cui le donne possano imparare ad avere consapevolezza del proprio corpo e su come insistere affinché ricevano consulenze e trattamenti medici migliori.

Niels Lauersen: C’è un gran numero di donne e uomini sterili. Spesso sono persone che hanno rimandato la scelta di avere un figlio e, frequentemente, sono persone istruite.

N.: Il dottor Lauersen stava trattando pazienti per l’infertilità a New York. Diceva che le sue pazienti erano donne istruite che avevano rimandato la gravidanza.

N. L.: Abbiamo scoperto che spesso queste stesse donne facevano lavori stressanti e, forse, avevano qualche crampo mestruale e così via. Questo ha portato a ciò che chiamiamo endometriosi o “la malattia delle donne in carriera”.

N.: La “malattia delle donne in carriera”: un nuovo modo di descrivere ciò di cui il dottor Meigs aveva parlato decenni prima. Mary Lou Ballweg, la fondatrice dell’Endometriosis Association, conosceva il dottor Lauersen.

Mary Lou Ballweg: I suoi uffici erano a Park Avenue. Sai, una zona molto elegante.

N.: Come il dottor Meigs negli anni ’30, il dottor Lauersen curava alcune delle pazienti più ricche e privilegiate.

M. L. B.: Ma naturalmente, quando gli dissi “Chi stai visitando a Park Avenue a Manhattan? Non è scientifico presumere che il gruppo che ti capita di visitare, rappresenti tutte le donne.”

N.: L’etichetta della “malattia delle donne in carriera” prese vita propria. È difficile stabilire esattamente quando è stata usata per la prima volta, probabilmente tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Più o meno nello stesso periodo del movimento femminista della seconda ondata.

K. S.: Il consolidamento e la designazione dell’endometriosi come “malattia delle donne in carriera” coincide con questo periodo di sconvolgimenti politici e sociali, dove le donne stavano iniziando a protestare e a opporsi alle norme sociali e agli stereotipi.

N.: Di nuovo torna questa idea che i loro comportamenti stavano causando la malattia, come se fosse colpa loro.

K. S.: Prese piede l’idea che l’endometriosi fosse una condizione esclusiva delle donne lavoratrici che davano priorità al lavoro rispetto alla famiglia.

N.: Le riviste popolari negli anni ’70 e ’80 riportavano che le donne con lavori impegnativi avevano più probabilità di sviluppare l’endometriosi.

K. S.: Si ripeteva spesso che l’endometriosi non era solo una condizione delle donne ambiziose e in carriera ma anche delle donne che pensavano troppo.

N.: Tutto ciò che riguarda questo mito è diventato molto complesso.

K. S.: Ed è qui che penso che la razza diventi molto importante. Una volta che si furono insinuate queste idee sul fatto che le donne intelligenti, votate alla carriera, ambiziose, con aspirazioni, che avevano avuto accesso all’istruzione stavano ritardando la gravidanza, allora si insinuarono ipotesi molto razziste sulle capacità intellettuali delle donne nere.

N.: I libri di testo, le riviste femminili e persino alcuni libri di auto-aiuto sull’endometriosi descrivono le persone con endometriosi come privilegiate, competitive ed egoiste.

K. S.: Cominciarono a plasmare il modo in cui si pensava alla patologia, perché naturalmente a quel tempo le donne nere erano considerate meno intelligenti, con poche aspirazioni e, in tutta onestà, più disponibili a conformarsi “agli obblighi di natura”, come li avrebbe definiti Meigs.

N.: Quindi tutto questo è iniziato come la teoria del dottor Meigs, cioè che le donne più mature delle classi privilegiate sviluppavano l’endometriosi a causa di una gravidanza in tarda età. Poi si consolidarono quando studi clinici e libri di testo affermarono che le donne nere erano immuni all’endometriosi. Ciò fu riaffermato con l’ultimo stereotipo citato: l’idea che le donne ambiziose e in carriera — che era un codice per dire “donne bianche istruite e ricche” — sviluppassero l’endometriosi.

Per tutto questo tempo le pazienti nere e quelle povere hanno vissuto senza ricevere alcun trattamento per l’endometriosi. Per quasi un secolo, il mito ha impedito loro di ottenere una diagnosi. E come si fa a cambiare un’idea che è così pervasiva nella nostra cultura e nel nostro sistema medico?

Beh, c’è voluto un medico che viveva e lavorava in un quartiere abitato prevalentemente dalla comunità nera. Il suo nome era Donald Chatman. È mancato nel 2018. La dottoressa Lynn Todman, figlia del dottor Chatman, dice che aveva una profonda comprensione dell’influenza del razzismo nella comunità medica, in parte, a causa delle sue esperienze personali.

Lynn Todman: Era profondamente impegnato a servire la comunità afroamericana, per questo aveva aperto uno studio tra l’87esima strada e Stony Island Avenue a Chicago, dove è rimasto per diversi decenni.

N.: Lynn ricorda che nel suo ufficio, suo padre aveva tre bacheche con i volti di tutti i bambini e bambine che aveva fatto nascere. Molti di loro attraversavano le generazioni. Secondo lei quelle foto hanno una rilevanza attuale con il movimento Black Lives Matter.

L. T.: Sai, gli chiedevo “Perché hai tutte quelle foto di bambini e bambine?” E non so se lui, probabilmente, non ne era consapevole, ma lo sono io ora, che stava aiutando a rendere più facile la vita delle persone nere.

N.: Stava aiutando a rendere più facile la vita delle persone nere. Molte delle pazienti che si rivolgevano a lui erano alle prese con problemi legati all’infertilità. Si impegnava ad aiutarle anche quando gli altri medici dicevano che non c’era niente da fare.

Il dottor Chatman ha iniziato a Chicago nel 1969, praticando presso il Michael Reese Hospital, dove era solo il secondo medico nero nel reparto di ginecologia. Ha aperto il suo studio privato che poi è cresciuto rapidamente. Lì ha incontrato Linda, sua moglie, che lavorava come infermiera. Oggi lei è un’avvocata.

Linda Chatman: Le sue pazienti lo amavano, ma non era un tipo espansivo. Ok. Non fraintendetemi. Ma era il più grande sostenitore delle sue pazienti.

N.: Linda dice che aveva deciso di diventare un ginecologo fin dalla tenera età. Suo padre era stato medico negli anni ‘20.

L. C.: Quando suo padre esercitava, un nero non poteva diventare uno specialista. Era un medico di campagna. Era un medico generico a Baton Rouge, in Louisiana. Non poteva specializzarsi perché non lo permettevano.

N.: Dopo la laurea ad Harvard, a Donald Chatman fu negato l’accesso alla scuola di medicina della Louisiana State University perché era nero. Così frequentò la stessa scuola di medicina del padre, il Meharry Medical College.

Il dottor Chatman amava far nascere i bambini. Ma era anche particolarmente interessato alla laparoscopia ginecologica, un’alternativa alla laparotomia. La maggior parte delle sue pazienti al Michael Reese Hospital erano donne nere. E notò che molte di loro avevano i segni rivelatori dell’endometriosi, cosa che attirò immediatamente la sua attenzione.

L. C.: Leggeva nei libri di testo e sentiva dire ovunque che le donne nere non avevano l’endometriosi, solo le donne bianche di mezza età ce l’avevano.

N.: Linda ricorda una citazione da un libro di testo in particolare.

L. C.: Diceva che nei reparti per le persone nere dove la malattia infiammatoria pelvica è più comune, l’endometriosi è più rara.

N.: La malattia infiammatoria pelvica, di solito, si verifica quando i batteri trasmessi sessualmente si diffondono all’utero, alle tube di Falloppio o alle ovaie. Si riteneva che le pazienti nere fossero ipersessuali — secondo uno stereotipo razzista di lunga data.

L. C.: Nella sua pratica, mio padre vedeva proprio il contrario: vedeva un sacco di pazienti con endometriosi, la vedeva nelle adolescenti e nelle donne. Così iniziò a documentare il tutto.

N.: L’endometriosi può essere confermata solo attraverso la chirurgia laparoscopica. Il dottor Chatman scattò delle foto durante gli interventi e le trasformò in diapositive da poter presentare ai suoi colleghi.

L. C.: Sai, l’establishment medico diceva che bisognava essere una donna bianca di mezza età. Ma nessuno guardava le adolescenti.

N.: Il dottor Chatman stava scoprendo che le adolescenti avevano l’endometriosi. Questa da sola era una prova sufficiente a dimostrare che qualcosa non andava nell’idea della “malattia delle donne in carriera”. Linda dice che sia lei che suo marito erano scettici sulle teorie degli anni ‘30.

L. C.: Pensate a quello che stavano dicendo “Ehi, iniziate ad avere figli prima, da giovani, o questo è quello vi succederà, sapete?”. Cercavano di rimettere le donne al loro posto.

N.: Negli anni ’70, il dottor Chatman iniziò a raccogliere dati. Decise che avrebbe valutato le pazienti che si presentavano con dolore pelvico per vedere quante di loro avevano l’endometriosi. Inviò i suoi articoli a riviste di ogni sorta chiedendo loro di pubblicare i suoi risultati. Chiese di poter parlare ai convegni medici. Nessuno lo ascoltava.

L. C.: Veniva respinto ma continuava a dire “No, no, no, guardate, ho tutti questi dati…” eppure continuava a essere respinto, ancora e ancora.

N.: Nessuno voleva sentire parlare dell’endometriosi nelle donne nere. Tuttavia, il dottor Chatman sapeva che la posta in gioco per le sue pazienti era alta. Diagnosi errate e maltrattamenti stavano causando anni di dolore prolungato ingiustificato.

L. C.: Se una donna nera entrava al pronto soccorso o nello studio di un medico e si lamentava del sanguinamento, del dolore pelvico, ecc., la prassi era darle degli antibiotici e mandarla via. Se una donna bianca di mezza età arrivava con le stesse identiche lamentele, allora venivano fatti i controlli per l’endometriosi. Funzionava così.

N.: Il dolore pelvico delle pazienti nere veniva diagnosticato come malattia pelvica infiammatoria. Si presumeva che fosse dovuto a un’infezione a trasmissione sessuale. Diagnosticare alle giovani pazienti nere questa malattia non risolveva nulla. Tornavano qualche settimana dopo con gli stessi sintomi. La loro endometriosi non veniva trattata per anni e anni.

L. C.: Faceva parte del razzismo sistemico dire che le donne nere erano promiscue, irresponsabili. E così contraevano la malattia infiammatoria pelvica a causa della loro promiscuità. E non prendevano una malattia perbene come l’endometriosi.

N.: Questo tipo di supposizioni razziste non erano rare. Il dottor Chatman vedeva come i suoi colleghi mancassero di rispetto alle loro pazienti nere.

L. C.: Una delle cose che gli è rimasta davvero impressa è che i medici bianchi usavano il doppio guanto per esaminare le donne nere, ma non le donne bianche. Questo sia per fare esami vaginali o anche solo per toccarle, il che è semplicemente ridicolo.

N.: Linda sostiene che le convinzioni razziste dei colleghi del dottor Chatman abbiano influenzato il loro modo di praticare la medicina.

Questo è parte del motivo per cui, quando il dottor Chatman ha sostenuto che le donne nere hanno l’endometriosi, è stato davvero un grosso problema. Stava ricacciando indietro secoli di idee razziste sul corpo delle donne nere: idee sull’ipersessualità e la promiscuità.

Ma gli altri medici dicevano di non credere ai dati del dottor Chatman. Finché un giorno, finalmente, ebbe un’opportunità inaspettata.

L. C.: Alla fine ricevette un invito per un convegno medico a Saskatoon, Saskatchewan in Canada. Un luogo in mezzo al nulla.

N.: Così andò a presentare i suoi dati per la prima volta. Ascoltarono la sua presentazione, ma sembravano increduli. Dopo la presentazione, un medico lo avvicinò.

L. C.: Questo medico gli si avvicinò dicendogli: “Allora, le donne nere con la pelle chiara ce l’hanno più spesso delle donne nere con la pelle scura?” E lui: “No, di cosa stai parlando?”. Sai, non riuscivano a capacitarsi del fatto che le donne nere avessero l’endometriosi.

N.: Le cose cominciarono a cambiare per il dottor Chatman.

L. C.: Non è stato accolto a braccia aperte, ma è stato almeno in grado di farsi ascoltare, col tempo, perché non si è arreso. Divenne più conosciuto e la gente cominciò ad ascoltarlo.

N.: Alla fine, la ricerca del dottor Chatman fu approvata per la pubblicazione. Aveva passato anni a insistere sul fatto che le sue pazienti avevano l’endometriosi. Non diversamente da molt* pazienti che passano anni alla ricerca di una diagnosi e di qualcuno che l* prenda sul serio. Nel 1976, il dottor Chatman pubblicò un articolo intitolato “Endometriosi nella donna nera”.

Confermò l’endometriosi in una 1 paziente su 5 tra quelle che aveva studiato. A molte di loro era stata erroneamente diagnosticata la malattia infiammatoria pelvica. Sosteneva che la diagnosi errata derivava dal mito di lunga data sull’immunità, lo stereotipo sulla promiscuità, e dall’idea che solo le donne anziane sviluppano l’endometriosi. Nell’articolo invitava i suoi colleghi medici ad ascoltare le loro pazienti nere che avevano dolori pelvici e a indagare.

Lentamente, il dottor Chatman raggiunse un pubblico più vasto. Cominciò a essere visto come un importante e rispettato ginecologo. Entrò a far parte del consiglio dell’Associazione Americana di Laparoscopia Ginecologica. Lì ebbe una piattaforma nazionale e più tardi ne divenne presidente. A metà degli anni ’80, il suo impatto fu tangibile.

L. C.: Ha cambiato i libri di testo. I medici hanno effettivamente ammesso che le donne nere e le adolescenti hanno l’endometriosi … Voglio dire, ha fatto questo quasi da solo. Voglio dire, lui… lui non avrebbe mai rinunciato, sapete? Grazie al cielo.

N.: Il dottor Chatman vedeva i libri di testo come la radice del problema: la diffusione della disinformazione. Credeva che cambiare l’educazione medica avrebbe potuto finalmente sfatare certi miti. E, in un certo senso, ha funzionato. La gente si allontanò dall’idea che le donne nere e della classe lavoratrice non potessero avere l’endometriosi. Lynn, la figlia del dottor Chatman, dice che questo fu significativo.

L. T.: Stava fondamentalmente sfidando la convenzione medica e questo è un atto politico. Penso che molto di quello che stava facendo fosse di natura politica. Non credo che lui l’avrebbe caratterizzato come tale. Ma ripensandoci e capendo quello che so ora penso che fosse un medico attivista.

N.: Dato che non possiamo parlare direttamente con lui, abbiamo voluto sentire alcune delle sue pazienti e delle specializzande che si sono formate con lui.

Donna Younkins: Non ho mai davvero sviluppato un rapporto con nessuno dei miei dottori… Andavo solo a fare il pap test o altro e poi me ne andavo. Solo quando ho incontrato il dottor Chatman, mi sono sentita abbastanza a mio agio da parlare dei miei crampi e di quello che mi stava succedendo.

N.: Il dottor Chatman scoprì che Donna aveva l’endometriosi quando andò per farsi legare le tube. Le avevano sempre detto che il suo dolore era solo nella sua testa.

D. Y.: Era il tipo di medico con cui potevi sederti e parlare, ti faceva sentire a tuo agio.

N.: Un’altra paziente, Beth, è stata indirizzata a lui quando si è trasferita a Chicago.

Beth Kaveny: Non ha mai smesso di essere curioso su ciò che poteva generare i disturbi in una paziente.

N.: Chatman ha fatto nascere due dei suoi figli.

B. K.: Potevi dirgli qualsiasi cosa. Prendeva tutto quello che gli dicevi con una tale importanza, che potevi fidarti totalmente di lui.

N.: La dottoressa Gloria Elam è una ginecologa che è stata formata dal dottor Chatman.

Gloria Elam: Se lo chiamavi di notte per parlargli di una paziente, iniziava a dirtelo prima che tu finissi di dirglielo. Conosceva tutte e conosceva tutti i dettagli. Era molto consapevole di ogni paziente come persona.

N.: Anche la dottoressa Joann Smith si è formata con il dottor Chatman.

Joann Smith: Ci ha davvero insegnato che bisognava credere, credere alle persone. Prendeva le persone sul serio. Sapeva che c’era qualcosa che mancava ai medici e ce lo avrebbe insegnato, per Dio.

N.: Linda Chatman dice che il lavoro per creare consapevolezza, individuare e curare l’endometriosi è tutt’altro che finito.

L. C.: Ogni donna dovrebbe sapere cos’è l’endometriosi, che ce l’abbia o no. Dovrebbero saperlo così come la gente sa cos’è il cancro al seno.

N.: Come sappiamo da altre storie, l’endometriosi come condizione è ancora incompresa. E la dottoressa Olga Bougie ci ricorda che le pazienti impiegano dai 7 ai 10 anni per ottenere una diagnosi.

O. B.: È una condizione molto enigmatica e molto difficile da diagnosticare. Quindi, quando guardiamo a questa prospettiva storica, credo che le persone abbiano cercato di risolvere questo enigma ma si sa che non c’è un test semplice per questa malattia.

N.: Ottenere una diagnosi è sempre dipeso dai medici da cui puoi andare e dal fatto che ti prendano sul serio o meno.

M. L. B.: Penso che il mito sia nato dall’idea che chi sviluppa questa malattia sono coloro che riescono a ottenere una diagnosi.

N.: Questa è di nuovo Mary Lou Ballweg dell’Endometriosis Association. Lei dice che per tutto il tempo questo mito fu basato su una supposizione. Il dottor Meigs vedeva quasi solo pazienti bianche di classi privilegiate, quindi sosteneva che erano loro a poter sviluppare l’endometriosi. Non stava pensando criticamente al background sociale ed economico delle sue pazienti e alla disponibilità di assistenza sanitaria negli Stati Uniti.

K. S.: Ha tratto la conclusione che qualcosa nelle pratiche di quelle donne stesse causando l’endometriosi e che erano solo loro ad averla.

N.: Questa è la professoressa Kate Seear. Ciò ha continuato a essere vero per decenni.

K. S.: I medici non vedevano queste donne presentarsi nelle loro cliniche o credevano che non avrebbero avuto la patologia e quindi non la cercavano e non la diagnosticavano. È quasi certo che questa divenne una profezia che si auto-avvera.

N.: Oggi, le pazienti nere stanno affrontando le conseguenze di questa eredità storica. Come Samantha, che abbiamo sentito all’inizio del nostro episodio. I resti di questo mito razzista hanno fatto sì che Samantha abbia dovuto soffrire per anni con viaggi al pronto soccorso e un’overdose accidentale di codeina, prima di ottenere una diagnosi.

S. D.: Non ho trovato molte donne come me che hanno l’endometriosi ma non posso essere l’unica.

N.: Ora Samantha va nelle scuole superiori per insegnare educazione mestruale. Vuole aiutare le adolescenti ad ottenere una diagnosi precoce.

S. D.: Insegno soprattutto nelle comunità nere, dove ho appreso che le donne vengono ignorate… e i loro medici dicono loro che è normale.

N.: Samantha vede quanto lavoro c’è ancora da fare.

S. D.: Stiamo ignorando il loro dolore e i loro corpi. Ed è a causa del colore della loro pelle? Potrebbe essere perché lei è nera? I medici sarebbero più inclini a fare dei test e a scoprire cosa sta succedendo più velocemente?

N.: Solo perché il mito è scomparso dalla stampa popolare e dai libri di testo medici, non significa che sia scomparso dal nostro subconscio. O dal subconscio dei professionisti medici. Nel 2019, la dottoressa Bougie ha condotto una revisione della letteratura medica, rivelando che le pazienti nere hanno solo la metà delle probabilità di ricevere una diagnosi di endometriosi rispetto alle pazienti bianche.

Infatti, fino all’estate scorsa, la Johns Hopkins elencava “l’essere una donna bianca” come fattore di rischio per l’endometriosi. È stato così fino a quando Kyla Canzater, attivista nera, ha denunciato la situazione, solo allora l’hanno tolto.

K. S.: Il linguaggio è cambiato, si è ammorbidito in un certo senso, non è così schietto come quello che potremmo aver visto usare da Joseph Meigs. Alle donne viene ancora detto che hanno avuto un ruolo nello sviluppo della patologia attraverso le loro pratiche, i loro comportamenti. E ci sono ancora sfumature razziste e classiste in quel linguaggio. Credo che l’eredità di queste idee sia ancora con noi.

N.: Non possiamo cambiare ciò che è successo in passato. In molti modi, il dottor Meigs e i suoi colleghi erano prodotti del loro tempo. Dobbiamo esaminare i valori che influenzano il nostro sistema sanitario contemporaneo. Questa storia influenza la diagnosi, i trattamenti e la stessa conoscenza medica.

La maggior parte della ricerca sull’endometriosi è ancora condotta su donne bianche. Ciò che i ricercatori decidono di studiare e indagare oggi, avrà un impatto sulle persone tra 50 anni.

K. S.: Queste sono idee e pratiche che continuano a riecheggiare. Hanno avuto un’eco attraverso le epoche.

N.: Guardando la storia di questo mito, vorrei mettere i professionisti della medicina di fronte al fatto che hanno affermato che l’endometriosi non esiste nelle donne nere e lavoratrici. Penso che il mito della “malattia delle donne in carriera” non sia in realtà una storia di pazienti. Non ci dice nulla su chi ha o non ha l’endometriosi. Invece, è una storia di professionisti medici. Ci ricorda che i medici non sono divinità. Sono prodotti del nostro tempo e della nostra socializzazione. Ma questa storia è anche un racconto ammonitore su ciò che è in gioco quando i nostri medici decidono chi è degn* di diagnosi e meritevole di cure.

Endometriosi e gaslighting. Nemmeno l’ambito medico è immune al fenomeno del gaslighting: come riconoscerlo e neutralizzarlo

Articolo originariamente pubblicato il 23 marzo 2021.

Quante volte vi sarà successo che all’uscita di una visita specialistica senza una diagnosi vi siate sentit* svuotat*, confus*, amareggiat*, sol*, incompres*, non credut*. Ecco, potreste essere stat* vittime di GASLIGHTING.

Il termine deriva dall’inglese “gaslight” (luce a gas) e ha acquisito una connotazione specifica in seguito al film del 1944 “Gaslight” (conosciuto in Italia con il titolo “Angoscia”), per la regia di George Curok e interpretato da attori e attrici di un certo calibro, quali: Ingrid Bergman e Joseph Cotten e una Angela Lansbury in erba. Il film è ambientato nei primi del Novecento, quando, appunto le luci nelle case erano a gas, e segue le vicende di una coppia di sposini trasferitisi nella grande casa ereditata dalla moglie. Ad un certo punto della narrazione vediamo che qualcosa non quadra. Il marito inganna la moglie, facendole credere di essere sbadata, confusa, instabile. Qui entrano in giochi sottili strumenti di manipolazione come l’abbassamento delle luci a gas dal quadro centrale della casa, per dare alla donna un senso di chiusura e vertigine. Lei non si sente più sicura delle proprie percezioni sensoriali e mentali, non si sente adeguata e il suo stato di confusione, provocato dalla manipolazione del marito, è finalizzato ad uno scopo economico. Il marito vuole far internare la moglie, facendola risultare pazza, per poter usufruire in toto dell’eredità.

Il Gaslighting può trovarsi ovunque, in famiglia, nella coppia, al lavoro e, ahimè, nello studio medico. Lo scopo del Gaslighting è l’esercizio del potere (a volte mosso da ragioni economiche o in generale a proprio beneficio) tramite la manipolazione della realtà, minimizzando preoccupazioni, pensieri o sintomi e svalutando una persona che si trova in una posizione di inferiorità intellettuale, economica, psichica o emotiva.

Quando andiamo a fare una visita, che paghiamo molto, per il cui appuntamento abbiamo aspettato mesi (a volte un anno), spesso entrano in gioco sentimenti di aspettativa, pronazione e stress. Sappiamo che ci stiamo giocando tutto in una quarantina di minuti (se ci va bene): il/la specialista deve ricevere tutte le informazioni, ma non dobbiamo essere saccent*, ma nemmeno troppo incert*. Può venire il dubbio se lasciarlo/a parlare e farlo/a brillare della sua luce, magari fargli qualche complimento, proprio a causa di un senso di inferiorità e dovuto ad un disperato tentativo di avere la sua attenzione e il suo aiuto. Allo stesso tempo dobbiamo ricordare eventi traumatici come il dolore, gli esami invasivi, le diagnosi sbagliate che hanno segnato la nostra emotività, cercando di essere obbiettiv* e distaccat*. Insomma siamo spesso in una posizione di svantaggio, paura, tensione e FRAGILITÀ.

Non solo, la nostra società ci ha insegnato a rispettare e, a volte, quasi deificare la figura medica, la quale, per anni è stata su un piedistallo, irraggiungibile e impossibile da contraddire. Il/la paziente doveva affidarsi alla cieca e smettere di preoccuparsi. È sicuramente una soluzione che aiuta a decomprimere lo stress, ma quando ci occupiamo di malattie come l’endometriosi le cose cambiano.

Perché per l’endometriosi la cosa è diversa? Perché l’endometriosi ha un ritardo diagnostico stimato attorno ai 7 anni (io ci ho messo 16 anni per avere una diagnosi). Se l’endometriosi viene esclusa a priori nella ricerca delle cause del dolore può accadere che anche una risonanza o un’ecografia non porti a risultati evidenti. Infatti negli esami operatore-dipendente, il/la radiolog* deve avere una formazione adeguata per poter riconoscere l’endometriosi, ossia deve sapere COSA sta cercando e quindi necessita di un’indicazione da parte dell* specialista. È risaputo che l’endometriosi non sia ancora ben conosciuta da ogni medic*, ma credo che una buona dose di colpa per il ritardo diagnostico sia da imputare al fatto che medici e mediche non ci ascoltino e, nella fattispecie, non ascoltino il dolore femminile, minimizzandolo e sottovalutandolo. L’anamnesi, insegnata nelle scuole di medicina, è fatta di ascolto dei sintomi, ma se medici e mediche a priori pensano che la donna “tende a drammatizzare e a non sopportare il dolore”, le parole della paziente non avranno valore.

Qualche volta può accadere che venga consigliato di andare da uno psichiatra, succede spesso che si venga tacciat* di isteria, o di cercare attenzioni, o di celare pigrizia dietro ad un sintomo. A volte viene chiesto se si sia stat* vittima di abusi sessuali o se ci sia un malcelato desiderio di maternità. A volte ci viene consigliato di cambiare stile di vita, di fare yoga, di cambiare l’alimentazione perché, basta guardarci, siamo in sovrappeso o troppo magr*, di non pensare troppo al dolore, magari di farci una vacanza per decomprimere lo stress, di dedicarci di più alle proprie passioni o di fare di più l’amore (giuro, mi è stato detto!).

Il dolore se non viene considerato reale, cioè derivante da cause patologiche, viene svalutato. Il professionista non ammette di non conoscere l’endometriosi, preferendo far ricadere le cause del malessere, e quindi la responsabilità, sul* paziente. Questa è una forma di manipolazione che rientra nel Gaslighting. Sì, perché dire che è un problema psicologico, o legato al proprio stile di vita, implica che la causa del nostro dolore sia insita nel nostro modo di vivere, percepire, accogliere le nostre esperienze. Il/La professionista così si libera da ogni responsabilità, generando confusione e frustrazione nel* paziente.

Essere vittima di questa manipolazione è deleterio per chi è già fragile in quanto dolorante e preoccupat* e può ripercuotersi anche in ambito familiare e sociale. Non avvalorata da una diagnosi, la sofferenza del* malat* di endometriosi può essere mal interpretata, nella coppia, al lavoro, tra gli amici.

La dottoressa Theresa J. Covert (psicologa e autrice del libro: Gaslighting: The Narcissist’s Favourite Tool Of Manipulation — How to avoid the Gaslight Effect and Recovery from Emotional and Narcissistic Abuse. GD PUBLISHING LTD, 2020) dice che il Gaslighting, se reiterato, può portare alla “disconnessione della vittima da sé stessa (anche definita dissonanza cognitiva) dalle proprie emozioni e dalla propria abilità di decidere per sé e sapere cosa vuole”, “il manipolatore fa affermazioni contraddittorie e alla vittima è preclusa la verità”.

I consigli della dottoressa Theresa J. Covert sono:

· prima di tutto il fatto di prendere coscienza di questo meccanismo,
· credere nelle proprie intuizioni (in particolare credere che se si ha dolore, qualcosa evidentemente non va),
· conoscere i propri diritti fondamentali (nella fattispecie, il diritto alla salute),
· eliminare il senso di colpa (che spesso attanaglia chi ha endometriosi, che si sente un peso per gli altri dato che il proprio dolore, se non avvalorato da una figura medica, diventa lamentela o il senso di colpa, che ho sperimentato personalmente, è quando mi è stato fatto notare che, non avendo niente, o comunque niente di grave, stavo rubando il posto a chi combatte con malattie “serie”),
· mantenere un certo distacco (i/le medic* sono professionist* che noi paghiamo e da cui pretendiamo un buon servizio).

Come dice il Dottor Andrea Vidali: If you really listen to someone, the silent endometriosis was never really that silent”, se ascolti davvero una persona [il/la paziente], l’endometriosi silente non è mai stata realmente così silenziosa.

Ablazione ed escissione: tecniche chirurgiche a confronto

Articolo originariamente pubblicato il 26 marzo 2021.

La rubrica “ENDO glossario” nasce con lo scopo di analizzare di volta in volta i termini più ricorrenti nell’ambito dell’endometriosi e il cui significato è spesso poco comprensibile a un pubblico non specializzato.

A come ABLAZIONE

Con il termine ablazione si intende quella tecnica chirurgica volta a eliminare il tessuto malato (nel nostro caso, endometriosico) tramite cauterizzazione o vaporizzazione laser, sfruttando il calore ad alte temperature per bruciare lo strato più superficiale delle lesioni.

Osservazioni:

1- I tessuti così trattati vengono distrutti, impedendo una successiva analisi istologica che possa confermare o meno l’effettiva presenza di endometriosi.

2- Questa procedura può risultare incompleta nel trattamento della DIE (endometriosi profonda infiltrante), in quanto viene utilizzata sulle aree visibili delle lesioni (lo strato esterno e più superficiale), senza eradicarle in profondità. Quando il tessuto endometriosico non viene asportato del tutto, c’è una maggiore possibilità di reazioni infiammatorie e di sviluppo di un quadro fibroaderenziale, con conseguente sintomatologia dolorosa. In questo caso non si parlerà di recidiva della patologia, ma di permanenza della stessa.

3- L’uso di alte temperature in prossimità di strutture anatomiche delicate quali ureteri, vasi sanguigni, intestino, può aumentare l’eventualità di danneggiare organi e tessuti sani.

E come ESCISSIONE

Con il termine escissione (excidere = ex+caedere, tagliare via) si intende quella tecnica chirurgica che elimina il tessuto malato (endometriosi) tramite strumenti che tagliano le lesioni in profondità, eliminando ghiandole e stroma della malattia. Si tratta della tecnica chirurgica più comune e più vetusta, già usata nelle laparotomie e che, se eseguita correttamente, ha un grado si recidiva (nel caso di endometriosi) molto più bassa dell’ablazione. L’escissione è considerata il gold standard per l’eradicazione chirurgica dell’endometriosi, richiede più tempo per essere eseguita e una maggiore preparazione e abilità da parte di chi opera rispetto all’ablazione.

Osservazioni:

1- I tessuti malati vengono escissi nella loro interezza e talvolta si ritiene necessario dover eliminare anche una porzione di tessuto sano (o apparente tale) attorno alla lesione per assicurarsi di non lasciare cellule endometriosiche in sito (tecnica che deriva dall’oncologia).

2- Il tessuto escisso non viene sovra-infiammato dal calore e quindi il processo di guarigione ha una ridotta produzione fibrotica-aderenziale.

3- L’escissione permette di eliminare l’endometriosi senza danneggiare gli organi circostanti.

4- I tessuti tagliati in escissione possono essere analizzati biopticamente tramite un esame istologico per permettere una diagnosi.

I numeri del Center For Endometriosis Care: la recidiva di endometriosi con ablazione è del 40–60% nelle pazienti, anche prima del primo/secondo anno dall’intervento. L’escissione ha una percentuale di successo (inteso come assenza sintomatica per molti anni) nel 75–85% nelle pazienti.

Fonti:

  • Hubbard TB Jr, Khan MZ, Carag VR Jr, Albites VE, Hricko GM. The pathology of peritoneal repair: its relation to the formation of adhesions. Annals of Surgery 1967;165(6):908‐16.
  • Ling FW, Stovall TG, Meyer NL, Elkins TE, Muram D. Adhesion formation associated with the use of absorbable staples in comparison to other types of peritoneal injury. International Journal of Gynaecology and Obstetrics 1989;30(4):361‐6.
  • Grainger DA, Soderstrom RM, Schiff SF, Glickman MG, DeCherney AH, Diamond MP. Ureteral injuries at laparoscopy: insights into diagnosis, management, and prevention. Obstetrics and Gynecology 1990;75(5):839‐43.
  • Nezhat CR, Childers J, Borhan S. Major vessel injury during advanced laparoscopic surgery. The Journal of the American Association of Gynecologic Laparoscopists 1996;3 Suppl(4):33.
  • “Why is laser vaporization best avoided in the surgical treatment of endometriosis?” http://endopaedia.info/treatment2.html
  • “Excision of endometriosis” https://centerforendo.com/lapex-laparoscopic-excision-of-endometriosis/

Endo e taboo sulla salute mentale

Articolo originariamente pubblicato il 21 aprile 2021.

TRIGGER WARNING: SUICIDIO, DEPRESSIONE, SALUTE MENTALE

“Una mattina qualunque, stavo bevendo il tè mentre controllavo le email e i messaggi su Facebook, quando comparve la notifica del compleanno di un’amica. La giornata prese all’improvviso una piega diversa. Le scrissi gli auguri sulla bacheca ma quelle parole non potette leggerle mai: si era suicidata 8 mesi prima a causa dei forti dolori pelvici cronici causati dall’endometriosi.”

L’avete sentito anche voi un pugno nello stomaco leggendo queste parole? Immagino di sì.

Questo è un breve estratto di un articolo della Dott.ssa Philippa Bridge — Cook, ovviamente in inglese, perché, se cercate su Google in italiano non troverete granché, d’altronde questo è il paese dei taboo.

In Italia, solo recentemente si è iniziato a parlare della sofferenza psicologica, con un aumentato rischio di ansia e depressione in chi soffre di endometriosi (solitamente negli studi si fa riferimento, come al solito, soltanto alle donne cisgender). Il suicidio è un argomento quasi inavvicinabile. Certo, non è una di quelle cose di cui si parla a tavola, purtroppo, però, è uno di quegli argomenti di cui non si parla affatto. Eppure il problema esiste, è reale ed il rischio di gesti estremi può aumentare a causa della pandemia. Solo qualche settimana fa, in Oregon, una donna con endometriosi di 31 anni si è tolta la vita. Era un’allenatrice e, a causa del Covid-19, ha perso il lavoro. Ha passato anni soffrendo per i dolori causati dalla malattia e dai molteplici interventi chirurgici. La morte del suo fedele cane, i problemi finanziari e il resto, l’hanno fatta scivolare nella depressione.

Possiamo stare qui ad elencare tutte le molteplici difficoltà che ogni giorno viviamo ma sappiamo bene quali sono e che impatto hanno sulla nostra vita. Quello che non è chiaro a molt* professionist* e alle istituzioni è che sottovalutare il dolore delle persone, trattarle come numeri, addossare al* paziente la responsabilità della propria condizione è un’aggravante enorme che pesa sulla salute mentale di chi sta soffrendo. Un’altra cosa che sembra non interessare a chi di competenza è che, in questo paese, prendersi cura della salute mentale è un lusso poiché il supporto psicologico non è previsto nella maggior parte dei centri per endometriosi del SSN.

“Ci sono state volte in cui sono ricaduta nell’autolesionismo e anche volte in cui ho cercato di porre fine alla mia vita perché il dolore non passava mai” afferma una ragazza di 21 anni in un articolo che parla della morte di un’altra paziente con endometriosi. Quest’ultima, Emma Panas, cantante, è stata trovata morta in casa sua. Aveva 28 anni. Un accidentale overdose di antidolorifici oppiacei le ha provocato un arresto cardiaco. Li prendeva da diversi mesi, sotto prescrizione dello specialista ma, a causa della pandemia, per due volte la visita al centro per la terapia del dolore le è stata annullata. Non è stato un suicidio ma questo non significa che non valga di meno, è l’ennesima vittima di un sistema sanitario latitante.

Fonti:

  • https://www.swlondoner.co.uk/life/17022021-london-women-forced-to-wait-months-for-endometriosis-treatment/
  • https://obits.oregonlive.com/obituaries/oregon/obituary.aspx?n=kelsey-noelle-harris&pid=198233778&fhid=22694&utm_source=facebook&utm_medium=social&utm_campaign=obitshareamp&utm_content=p198233778&fbclid=IwAR3s7brqIIgvQrm2ZlpL9TXVZ7w689YcvzeqDDFRqMviVSPlVDYEiN-79dY
  • https://www.newsshopper.co.uk/news/19073173.emma-panas-singer-found-dead-appointments-cancelled-covid/
  • https://www.hormonesmatter.com/endometriosis-suicide/

Endometriosi e disabilità

Su sfondo giallino chiaro, la bandiera dell'orgoglio disabile creata da Ann Magill nel 2021. La bandiera ha lo sfondo nero su cui sono disegnate strisce di diversi colori. Lo sfondo nero indica il lutto per le persone disabili morte a causa di negligenza, suicidio, malattia ed eugenetica. Le strisce disposte in modo parallelo rappresentano la solidarietà all'interno della comunità. I colori sulla bandiera simboleggiano varie esperienze di disabilità: rosso per le disabilità fisiche, giallo per le disabilità cognitive e intellettive, bianco per le disabilità non visibili e non diagnosticate, blu per le disabilità psichiatriche, verde per le disabilità sensoriali.

Articolo originariamente pubblicato il 31 agosto 2021.

Abbiamo posticipato la pubblicazione di questo articolo inizialmente prevista per luglio, mese in cui si celebra il Disability Pride Month, per non sovrapporci alle tante preziose voci che si sono raccontate durante tale ricorrenza. Nel testo, person-first (persone con disabilità) e identity-first (persone disabili) language vengono alternati per rispettare tutte le possibili scelte.

Il rapporto tra malattie invisibili/invisibilizzate e disabilità suscita un importante dibattito tra le persone che si considerano parte di una o entrambe le categorie. L’endometriosi non fa eccezione e, dunque, vorremmo condividere con voi alcune riflessioni in merito.

Ogni persona vive la propria esperienza con l’endo in modo unico e soggettivo, di conseguenza potrà sentirsi più o meno rappresentata da una determinata terminologia. Nel caso in cui la malattia interferisca o limiti la capacità di impegnarsi in alcuni compiti o azioni o di partecipare a tipiche attività e interazioni quotidiane, è possibile che ci si riconosca come persona con disabilità. La scelta di quali termini utilizzare per sé resta personale. Inoltre, è altrettanto importante rispettare i termini che le altre persone hanno scelto per se stesse e non presumere l’abilità o la disabilità di qualcunǝ in base al suo aspetto fisico.

Molti dei sintomi associati all’endo la rendono una disabilità invisibile, ossia una condizione che le persone di solito non notano dall’esterno. Chi soffre di endometriosi potrebbe avere disabilità derivanti dalla malattia stessa, dagli interventi chirurgici o dalle terapie farmacologiche assunte per gestire i sintomi.

Una delle maggiori sfide nell’affrontare una disabilità invisibile è il giudizio degli altri. Per esempio, se hai un corpo all’apparenza abile e decidi di sederti su un mezzo di trasporto affollato, magari occupando un posto riservato alle persone disabili, potresti ricevere sguardi di rimprovero o insulti (ancor di più se sei giovane). Per la stessa ragione, potresti anche avere difficoltà a convincere il personale medico-sanitario che stai soffrendo, il che si traduce in ulteriori ostacoli nell’accesso a trattamenti adeguati.

Abilismo interiorizzato

L’abilismo è definito come “discriminazione o pregiudizio contro le persone disabili/con disabilità”. L’abilismo interiorizzato si manifesta quando quel pregiudizio è diretto verso di sé in quanto persona con disabilità e può assumere diverse forme, tra cui:

– Sentirsi indesiderabili.

– Avere basse aspettative nei propri confronti.

– Sentirsi un peso per le altre persone.

– Mettersi a confronto con le persone abili.

– Sentire di non meritare alcune agevolazioni (es. un alloggio per persone con disabilità).

Lavorare su questi e altri aspetti può essere impegnativo, è dunque essenziale ricordare che l’abilismo interiorizzato non è una colpa delle persone disabili, ma la conseguenza di una società costruita intorno a bisogni, capacità e interessi degli individui abili.

Da persona con endo, come puoi affrontare l’abilismo interiorizzato? Ad esempio, provando a ragionare in modo critico sui modi in cui ha influito sulla tua vita e/o sulla tua identità, parlando della tua esperienza con persone fidate o figure professionali per aiutarle a capire le differenti sfaccettature della disabilità, imparando il più possibile sull’abilismo interiorizzato e condividendo queste informazioni con chi ti circonda.

Orgoglio disabile

Questa espressione può significare molto cose, come l’essere orgogliosǝ di sé, volersi bene anche quando il corpo o la mente non ricambiano, e non sentirsi di dover nascondere quella parte di sé. Può anche significare riconoscere che alcune disabilità (per esempio quelle derivanti da malattie sintomatiche) possono rendere la vita difficile e a volte è necessario stabilire dei limiti e fare un passo indietro per prenderci cura di noi stessi.

Essere in contatto con altre persone della comunità disabile può essere un momento di crescita, scambio e supporto nonché un’occasione per disimparare l’abilismo interiorizzato. Le persone disabili senza endometriosi probabilmente sanno cosa vuol dire non essere credute dai medici o avere persone care che non capiscono le loro esperienze. E anche tu, come persona con endo, puoi dare il tuo contributo: condividendo la tua esperienza potresti aiutare qualcunǝ con sintomi simili a giungere a una diagnosi in tempi più rapidi.

Ogni esperienza è valida, sia che tu conosca (e celebri) l’orgoglio disabile o, al contrario, ne senti parlare ora per la prima volta o, ancora, non avevi mai nemmeno considerato l’endometriosi come una disabilità. Capire che ha un impatto diverso su ogni singola persona è a beneficio dell’intera comunità.

Crediamo nell’importanza di essere pazienti informatǝ, indipendentemente dal fatto che ci si identifichi o meno come persone disabili/con disabilità. Quando si hanno le informazioni di cui si ha bisogno diventa più facile tutelarsi.

Endometriosi nelle persone transgender: Majid Capovani racconta la sua esperienza

Articolo originariamente pubblicato il 14 giugno 2022.

Abbiamo conosciuto Majid Capovani tramite un post pubblicato sul suo profilo Instagram, in cui ha condiviso la sua esperienza traumatica con figure mediche dell’ambito ginecologico. In un successivo post, ha anche rivelato di avere l’endometriosi e di aver sofferto molto a causa di dolori mestruali debilitanti, prima di intraprendere la terapia ormonale sostitutiva. Ringraziamo Majid per la sua disponibilità a questa chiacchierata e ribadiamo l’importanza di cedere la parola alle persone direttamente interessate affinché possano raccontarsi alle proprie condizioni.

Ciao Majid, grazie per aver accolto il nostro invito. Hai voglia di raccontarci brevemente chi sei e quali sono i temi che ti stanno a cuore e su cui divulghi?

Certo! Sono un ragazzo trans e queer, nella vita studio Filosofia all’università, scrivo e sono formatore per la salute e il rispetto delle persone LGBTQIA+ per conto dell’associazione Genderlens. Dal 2019 faccio anche attivismo e a causa della pandemia ho cominciato a usare principalmente i social per questo scopo. Mi occupo principalmente di tematiche riguardanti la comunità LGBTQIA+, con un focus particolare sui diritti delle persone transgender, ma parlo anche di relazioni tossiche, violenza di genere e salute sessuale.

Nell’ultimo periodo, a seguito delle diagnosi di endometriosi e vulvodinia, ho cominciato a raccontare anche della mia esperienza con queste patologie e delle difficoltà che incontrano le persone trans afab (assigned female at birth, a cui è stato attribuito il sesso femminile alla nascita) nell’accesso ai servizi sanitari, alle diagnosi e alle cure.

Leggendo i tuoi post, emergono diversi elementi comuni a tante persone con endometriosi o altre patologie invisibilizzate. Uno di questi è l’invalidazione da parte del personale medico: pensi che la minimizzazione dei tuoi sintomi abbia influito sul ritardo diagnostico? Quanto tempo hai dovuto attendere per ricevere la diagnosi di endo e qual è stato il momento di svolta? Qualcuno ti ha aiutato o hai cercato informazioni per conto tuo?

Assolutamente sì, la minimizzazione dei sintomi e la normalizzazione del dolore hanno influito molto sul ritardo diagnostico, che nel mio caso è stato di ben undici anni. Mi sentivo sempre ripetere (sia dalla famiglia che dai medici) che il dolore durante le mestruazioni era normale e che dovevo sopportarlo un po’, ma dentro di me sentivo e sapevo che c’era qualcosa che non andava, quei dolori atroci, assieme a tutta un’altra serie di sintomi, non erano normali. Sono arrivato al punto di dover prendere il dosaggio massimo di antidolorifici durante i giorni delle mestruazioni e ho anche perso diversi giorni di scuola. Eppure tante persone mi davano dell’esagerato.

Un’altra cosa che ha giocato un ruolo importante nel ritardo diagnostico è stato il fatto che finché non ho cominciato ad avere rapporti sessuali – a 20 anni –, nessuno voleva farmi un’ecografia interna perché ero ancora vergine, nonostante la verginità sia un costrutto culturale e tali visite avrebbero potuto essere fatte. Ogni volta mi facevano solo ecografie esterne, dalle quali ovviamente non traspariva nulla. Ho così dovuto convivere con dolori tremendi finché la terapia ormonale per il percorso di transizione non ha interrotto il ciclo mestruale.

Per quanto riguarda la diagnosi, la prima persona che ha veramente ascoltato i miei sintomi e che mi ha suggerito che quasi sicuramente si trattava di endometriosi è stata un’amica medica. Qualche mese fa poi ho finalmente trovato una ginecologa molto preparata e competente che mi ha dato la conferma definitiva, dopo 11 anni di dubbi.
 
Una volta ottenuta la diagnosi, ritieni di aver ricevuto tutte le informazioni di cui avevi bisogno? Ti sono state proposte delle terapie per gestire i sintomi e, se sì, ti sono state utili?

Sì, fortunatamente la terapia ormonale sostitutiva ha interrotto le mestruazioni e quindi per quanto riguarda l’endometriosi non devo assumere nulla, in quanto il dolore si scatenava principalmente durante il mestruo.

Mi sono però stati diagnosticati anche vulvodinia e ipertono del pavimento pelvico. Mi hanno prescritto dei farmaci e sedute di fisioterapia per la riabilitazione del pavimento pelvico, ma purtroppo non posso economicamente permettermeli, ad eccezione di pochi farmaci. La vulvodinia, così come altre condizioni come la neuropatia del pudendo, non è riconosciuta come malattia cronica invalidante e di conseguenza il Servizio Sanitario Nazionale non passa le terapie farmacologiche e le sedute di fisioterapia, che sono totalmente a carico de* pazienti e hanno un costo molto alto, parliamo letteralmente di centinaia di euro. Un sacco di persone non possono così permettersi di curarsi come dovrebbero e le persone trans sono ancora più penalizzate, perché come sappiamo purtroppo spesso veniamo ancora gravemente discriminati nell’accesso al lavoro e di conseguenza capita che la situazione economica non sia delle migliori. Sono discriminazioni di vario tipo che si intersecano tra loro e vanno a minare il diritto di una persona alla salute e alle cure.

Quando hai iniziato il tuo percorso per l’affermazione dell’identità di genere, è cambiato qualcosa nel rapporto con gli/le specialisti/e? Come vieni accolto oggi ai controlli e alle visite ginecologiche?

Sì, ho notato che è cambiato il loro modo di trattarmi e purtroppo non in positivo.

Premetto che ho cambiato diverse ginecologhe in questi anni e ho potuto fare un confronto tra il modo in cui mi trattavano prima e come invece si rapportano a me adesso. In generale (tralasciando un attimo il tema dell’impreparazione delle figure sanitarie nell’avere a che fare con una persona trans), ho notato che non mi prestano la stessa attenzione che mi dedicavano quando non avevo ancora fatto coming out e venivo socializzato come donna. Da quando ho un aspetto canonicamente maschile ho spesso avuto la sensazione di non essere ascoltato quando esponevo i sintomi e i problemi che avevo e più di una volta mi è sembrato che le ginecologhe volessero finire il prima possibile con me. Per non parlare delle affermazioni scorrette che utilizzavano nei miei confronti e delle domande invadenti — non finalizzate alla visita — che mi ponevano. Ho speso un sacco di soldi in visite che non hanno risolto nulla. Inoltre, ho anche vissuto una brutta esperienza di violenza ginecologica di cui ho parlato in un’intervista.

Sei riuscito a trovare figure che fossero competenti in endometriosi e salute delle persone trans? Ti sono state spiegate le possibili interazioni tra farmaci per l’endo e terapia sostitutiva? Ti sei mai ritrovato a dover essere tu a “educare” i medici?

L’ultima ginecologa da cui sono stato (e che è diventata la mia specialista di fiducia) è molto competente e preparata per quanto riguarda endometriosi, vulvodinia e disfunzioni del pavimento pelvico. Inoltre, da quando ho cominciato il percorso di transizione, è stata l’unica che mi ha fatto sentire davvero a mio agio e chi ha trattato con gentilezza, chiamandomi con il mio nome e i miei pronomi e senza dire cose inopportune (dovrebbe essere la norma, il fatto che sia qui a rallegrarmene la dice lunga!). Ha ammesso di non sapere alcune cose riguardo per esempio possibili interazioni tra metodi anticoncezionali (che vorrei cominciare a utilizzare, perché la terapia ormonale non mi rende sterile e c’è il rischio di gravidanze indesiderate) e gli ormoni che prendo, ma ha provato comunque a informarsi per suggerirmi delle soluzioni.

Purtroppo l’anatomia delle persone trans in transizione medica e tutto ciò che riguarda la salute sessuale delle persone transgender non viene studiata nelle università e ciò ci pone di fronte alla difficoltà nel trovare specialisti che siano un minimo preparati, tutto è a discrezione del* singol* specialista. Non c’è quindi da stupirsi se circa il 60% delle persone trans non si recano da figure mediche per controlli o visite. Tutto questo va a ledere il nostro diritto alla salute e ciò avviene anche da parte dello Stato stesso, che non ci riconosce. Basti pensare che nel momento in cui un ragazzo trans cambia i documenti e il codice fiscale non può più accedere alle visite ginecologiche nel settore pubblico, perché quel tipo di visita è incompatibile con un codice fiscale maschile.

E comunque sì, mi è capitato un sacco di volte di dover essere io a educare i medici su come funziona la terapia ormonale e quali cambiamenti fisici avvengono, su quali metodi contraccettivi posso e non posso usare, su come riferirsi a una persona trans… Alla lunga è davvero stancante.

Ci siamo concentrati sul tuo essere una persona trans con endo, ma sappiamo che gli assi di oppressione possono essere molteplici. Ti vengono in mente altre discriminazioni che hanno interferito con il tuo percorso di diagnosi e cura?

I problemi sono davvero tanti: impreparazione del personale medico-sanitario, università che non includono lo studio dei corpi e delle specificità delle persone trans nei loro corsi di studio, transfobia istituzionale e burocratica che ci invisibilizza, condizione economica spesso precaria che impatta sulla possibilità di potersi permettere o meno determinate visite e cure, transfobia del personale medico…

Come ti senti ora? Durante questo cammino, pensi di aver acquisito una maggiore consapevolezza del tuo corpo e una maggiore serenità/benessere?

Di sicuro ho imparato un sacco di nozioni e mi sono fatto una discreta cultura in campo medico a furia di informarmi per conto mio su testi e ricerche scientifiche, ahahah.

Scherzi a parte, sono contento di essere riuscito, come persona trans, a ottenere delle diagnosi e delle risposte dopo così tanti anni. Grazie a esse sto imparando a conoscere meglio i bisogni e i limiti del mio corpo.

Cosa possiamo fare noi come advocate per migliorare la comunicazione sull’endometriosi e, soprattutto, cosa possono fare le figure dell’ambito medico-sanitario (al di là della preparazione “tecnica”)?

Oltre a puntare sulla formazione de* professionist* in ambito medico, prima di tutto occorre cambiare la narrazione che riguarda le patologie come endometriosi e vulvodinia. Si parla sempre di “patologie femminili” e “malattie delle donne”, quando invece riguardano anche uomini trans e persone non binarie, per cui bisognerebbe parlare più genericamente di persone con endometriosi o comunque utilizzare un linguaggio più inclusivo.

Non è un dettaglio da poco: attraverso il linguaggio noi descriviamo e plasmiamo la realtà. Continuare a parlare di queste patologie come se riguardassero solo le donne ha come conseguenza proprio il fatto che poi il personale medico-sanitario non prenda proprio in considerazione l’esistenza di persone trans con queste problematiche e non si informi a riguardo.

Occorre includere sempre di più le persone trans nelle narrazioni che riguardano queste patologie, ma anche nella lotta per il loro riconoscimento politico, altrimenti si rischia che le persone trans rimangano sempre penalizzate nell’accesso alle cure e alle diagnosi.

Marzo: 30 anni di consapevolezza

Su sfondo giallino chiaro, un fiocco giallo con la dicitura Endometriosis Awareness Month 1993-2023.

Articolo originariamente pubblicato il 24 marzo 2023.

Quest’anno il mese della consapevolezza dell’endometriosi conclude i suoi primi tre decenni di attività. Per celebrare questa ricorrenza, ripercorriamo alcune tappe fondamentali delle origini dei movimenti di pazienti, internazionali e italiani, che per primi hanno contribuito a offrire un supporto tra pari, sensibilizzare sulla malattia, promuovere ricerca e formazione e lottare per i diritti delle persone malate. Pensiamo sia importante conoscere quanto è stato fatto in passato, dentro e fuori dai confini nazionali, non solo per non dimenticare l’impegno di chi ci ha precedute, ma anche come spunto per riflettere insieme su cosa ha funzionato e cosa no, cosa può essere migliorato e in che modo, cosa si può ormai abbandonare; insomma, la pratica di guardarsi indietro, può aiutare a capire in che direzione proseguire, festeggiando traguardi e mettendosi in discussione quando serve.

Il 14 gennaio 1980 nasce l’Endometriosis Association, fondata a Milwaukee da Mary Lou Ballweg (attuale presidente) e Carolyn Keith. È stata la prima associazione al mondo ad aver dato voce alle persone con endometriosi, al motto di “Together We Make A Difference” (Insieme facciamo la differenza). In 43 anni di attività, sono numerose le iniziative portate avanti, tra cui progetti in ambito di ricerca e medicina traslazionale, pubblicazione di articoli scientifici, campagne di sensibilizzazione, raccolte fondi, creazione di reti di supporto e collaborazione a livello nazionale e internazionale. Alcuni importanti risultati raggiunti dall’associazione, che forse oggi diamo per scontati: produzione di un’ampia letteratura divulgativa disponibile in 31 lingue, istituzione di un registro dedicato, aver evidenziato che l’endometriosi riguarda tutti i gruppi socio-economici, etnici e razziali e che può manifestarsi anche in età prepuberale e in postmenopausa, aver documentato il lungo ritardo diagnostico, aver spostato l’attenzione da malattia “solo” pelvica a “sistemica”, aver dimostrato che si tratta di una malattia cronica, il cui il sintomo principale è il dolore e non l’infertilità, e molto altro.

Inizialmente, il periodo designato dall’EA per concentrare le campagne di sensibilizzazione doveva durare una settimana, l’Endometriosis Awareness Week, ma il tempo a disposizione si è rivelato insufficiente per riuscire a svolgere tutte le attività previste, dunque si è preferito estendere all’intero mese inaugurando così l’Endometriosis Awareness Month nel 1993.

Perché proprio marzo? Ballweg racconta che la scelta è stata dettata… dal clima! Avendo escluso estate e inverno per il rischio di temperature estreme e considerato che l’autunno è un periodo molto affollato, in cui si svolgono numerose campagne di raccolta fondi (in USA), l’inizio della primavera era sembrato un buon compromesso. E il giallo? Era il colore utilizzato dall’EA per i primissimi volantini realizzati negli anni ’80, poi distribuiti in tutto il mondo in diverse lingue. Vista l’ampia diffusione, il colore è rimasto, diventando rappresentativo delle campagne di sensibilizzazione. Per quanto riguarda i fiocchetti, Ballweg afferma che da soli non avrebbero significato molto, soprattutto negli anni ’90 quando l’informazione sull’endo era ancora limitata e raramente raggiungeva un pubblico più ampio, così decise di trasformarli in veri e propri strumenti di consapevolezza aggiungendo la dicitura “Ask me about endometriosis”, nella speranza di destare curiosità e avviare conversazioni sull’endometriosi con chiunque avesse fatto domande in proposito.

Fondata a Nerviano nel 1999, l’Associazione Italiana Endometriosi Onlus (non più in attività e da non confondersi con l’omonima associazione collegata alla FIE), costituita e gestita esclusivamente da pazienti, tra cui la presidente Jacqueline Veit, è stata la prima in Italia a occuparsi di endometriosi dalla parte di chi ne soffre. L’AIE si è basata sulla filosofia dell’auto-mutuo-aiuto dichiarandosi indipendente da ogni interesse acquisito, non promuovendo centri diagnostico-terapeutici né farmaci o aziende farmaceutiche. I principali obiettivi comprendevano: il sostegno emotivo, l’informazione, il coinvolgimento delle istituzioni e la promozione della ricerca scientifica. Ha fatto parte del circuito internazionale dell’Endometriosis Association ed è stata cofondatrice della European Endometriosis Alliance.

Nel 2005, l’AIE ha aderito alla settimana, poi mese, della consapevolezza. Tra le iniziative di marzo, anche un numero verde dedicato, in collaborazione con la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO). Nell’ottobre del 2005 ha presentato in Senato una relazione sull’impatto dell’endometriosi, chiedendo l’intervento delle istituzione sui seguenti punti:

  • Riconoscimento dell’endometriosi come problema sanitario significativo e malattia cronica;
  • Sostegno del governo alle attività di sensibilizzazione, comprese campagne di informazione rivolte al pubblico, agli operatori sanitari e ai legislatori;
  • Inclusione della prevenzione dell’endometriosi nei programmi scolastici di educazione sessuale;
  • Centri di eccellenza che collaborino con gli ambulatori locali e che si occupino della formazione dei chirurghi;
  • Maggiore ricerca sulle cause, la prevenzione e il trattamento dell’endometriosi.
  • Riconoscimento formale della seconda settimana di marzo come settimana di sensibilizzazione sull’endometriosi;
  • Sostegno economico per coprire le spese sanitarie delle pazienti.

L’AIE ha continuato a lottare per il riconoscimento dell’endometriosi come malattia sociale, contribuendo alla stesura dell’articolo “Recognizing endometriosis as a social disease: the European Union-encouraged Italian Senate approach”, pubblicato sulla rivista scientifica internazionale “Fertility and Sterility” nel 2007. Nel corso degli anni, ha preso parte a convegni scientifici rappresentando il punto di vista delle persone con endometriosi e ha collaborato con le istituzioni in veste di consulente presso la XII Commissione Permanente Igiene e Sanità del Senato e all’interno della Commissione Salute Donne presso il Ministero della Salute.

Su iniziativa del dott. Camran Nezhat, il 13 marzo 2014 nasce la Worldwide Endometriosis March (EndoMarch), manifestazione pacifica giunta quest’anno alla sua decima edizione. Oggi si svolge contemporaneamente in più di 60 paesi (in genere l’ultimo sabato di marzo) e può contare sull’adesione di oltre 100 organizzazioni, gruppi e società mediche. Sul sito ufficiale, ci sono anche le indicazioni per partecipare alla marcia virtuale con un programma che prevede incontri e altre attività disponibili online. L’Italia si è unita già dalla prima edizione, organizzata dal Team Italy e svoltasi a Roma, città che continua a ospitare l’evento.

Oggi, in Italia e nel mondo, le realtà di supporto presenti sul territorio e online si sono moltiplicate, l’attenzione mediatica è aumentata e le istituzioni vengono continuamente sollecitate. Attraverso mezzi di comunicazione in costante evoluzione, un sempre maggior numero di persone può fare rete, trovare informazioni e far sentire la propria voce. Ed è proprio a chi si espone, con i propri tempi e modi, che vorremmo dedicare alcune parole, ricordando quanto anche il più piccolo contributo sia prezioso (dentro e fuori dallo schermo) e di non scoraggiarsi, perché è grazie a loro (tu, noi, voi) che la narrazione dell’endometriosi si è ampliata e che il fardello di questa malattia sociale è diventato più lieve. Marzo è anche tuo, nostro, vostro: marzo è tutti i giorni. Con le parole di Mary Lou Ballweg: “We have to get out of the closet. It is nothing to be ashamed of. We did not bring this on ourselves. So let’s tell the world so we can change it.”

E allora diciamolo al mondo.