Oltre il rosa


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Illustrazione con sfondo bianco su cui è disegnata in modo stilizzato una serie di seni e cicatrici di colore variopinto.

Nell’ottobre del 2020, chiesi alla mia amica Chiara, paziente oncologica mutata, se se la sentisse di condividere una sua riflessione critica sulle campagne di prevenzione del cancro al seno “all’insegna del rosa”, che si susseguono ogni anno in quel fatidico mese. Chiara ha accolto il mio invito, di seguito le sue parole. Nota: ho pubblicato il suo testo per la prima volta sul mio profilo Instagram suddiviso in due parti (primo post e secondo post).

Con il bucato me la sono sempre cavata piuttosto bene: per quanto con la mente possa andare a ritroso nel tempo, non ho memoria di maglioncini miseramente infeltriti, o di capi ristretti al punto che sarebbero andati bene soltanto alle mie gatte, dopo (no, non sto avanzando la mia candidatura per il premio “massaia dell’anno”, non temete). Ho un unico, disastroso ricordo di una lavatrice di vestiti chiari che fu invece un epico fallimento: terminato il ciclo aprii lo sportello, e dalla lavatrice uscirono bracciate di indumenti di un pallido, omogeneo, snervante, irrimediabile… rosa confetto. Merda.

Ora, non rammento cosa fosse andato storto con candeggina e additivi vari – gli shock profondi causano repentina rimozione, è risaputo -, ma conosco invece il processo mentale che si innesca nella parte più remota dell’inconscio di ogni donna – perlopiù bianca e occidentale – quando il caldo cede il passo alla tersa aria autunnale, le foglie ingialliscono, le giornate si accorciano e ottobre arriva.

Già, ottobre.

Da un tempo che ora pare immemore avanza con fare chiassoso, oscenamente adorno di tutti quei minuscoli nastrini rosa, lustri e smaglianti nella loro foggia sempre identica; questi ammennicoli quasi civettuoli, con il preteso intento di fungere da monito e sprono, nella realtà dei fatti velano, oscurano, confondono quanto di osceno – obscenus, di cattivo augurio – si cela nelle pieghe di questo garrulo carnevale della morte. Perché è di cancro che si sta parlando, del “brutto male” delle nostre nonne, ancora innominabile e innominato; adesso lo vestiamo a festa, lo edulcoriamo ammantandolo di un ottimismo ostentato, cieco e sorridente, con la folle speranza di blandirlo, gestirlo, in una parola normalizzarlo, affinché possa perdere agli occhi della pubblica opinione la sua vocazione ineludibilmente letale.

Fra i tanti ricordi del periodo della mia diagnosi, me ne torna alla mente uno in particolare, forse proprio per il suo ingenuo e crudele candore; ero al telefono con una vecchia conoscenza, un signore sempre gentile e molto affettuoso nei miei riguardi; questa persona vive molto lontano dalla città in cui abito, e aveva intuito che qualcosa non andasse tramite i social. Gli “sparo” la notizia con la maggiore cautela possibile, preoccupata di poterlo turbare oltremodo; mi risponde con tono colpito ma sollevato, non dimenticherò mai le sue parole: “Beh, si può dire che, nella disgrazia, tu abbia avuto la fortuna più grande. Cancro, sì, ma al seno! Di quello ora si guarisce, meno male, dai!”.

Ero attonita, invece lui sinceramente sollevato, credeva DAVVERO nell’enormità che aveva appena asserito con convinzione; lui, come la moltitudine di persone che pensano che il carcinoma mammario sia un problema risolto, e che la faccenda si riduca ormai a una serie di maratone benefiche, raccolte fondi, serate di gala e graziose spillette con cui adornarsi la giacca per un mese all’anno. Si gettano alla rinfusa nel cestello della sofferenza gli eterogenei panni del guardaroba di una patologia per la quale NON esiste una cura, si chiude lo sportello, si aziona la lavatrice, e via: qualche giro, e come per quel mio bucato di tanti anni fa, tutto esce magicamente rosa, rassicurante, avvolgente.

Qualunque cianfrusaglia assuma quella sfumatura, o rechi quel nastro omologante e infingardo, la acquistiamo d’impulso con animo sereno e compassionevole, e lo spirito colmo di genuina solidarietà; la confezione è studiata ad arte, mirata a un pubblico ben preciso, le famose donne bianche, benestanti e occidentali che hanno conquistato larga parte del mercato capitalistico in veste di domanda, grazie al loro potere decisionale d’acquisto.

E allora pianifichiamo un’adeguata risposta di offerta, troviamo un colore che sia iperfemminile e rassicurante, pianifichiamo iniziative che inneggino a uno stile di vita sano e che magari ingentilisca il fisico, coinvolgiamo marchi che siano familiari a qual tipo di platea: poco importa che solo una parte infinitesimale dei profitti dati da questo abietto commercio arrivi alla ricerca, e ancor meno influente che molte delle aziende produttrici – fra tutti alcuni giganti della cosmesi – utilizzino ancora ingredienti cancerogeni per la composizione dei loro prodotti.

Il lavaggio della coscienza tramite il rosa, il pinkwashing, oltre a essere notevolmente proficuo, può rivelarsi persino catartico per i produttori: l’inebriante quanto effimera sensazione di “vittoria” sulla malattia che vendono alle donne, pazienti e non, è pressoché garantita, e può aiutare a placare i tormenti delle loro coscienze, se mai ce ne fossero.

Sì, “vittoria”, come Napoleone ad Austerlitz: è quel gergo militare che tanto si ama saccheggiare riferendosi ai pazienti oncologici; tu sei una “guerriera”, che si trova a dover “combattere questa battaglia”, con l’imperativo categorico di uscirne “vincitrice”.

È una subdola linea di ragionamento che si insinua strisciante nel sentire comune, promuovendo l’idea che chi invece non ha il suo lieto fine, chi invece muore (perché di cancro al seno si muore), non ci abbia “creduto abbastanza”, non abbia “lottato fino in fondo”, magari con il sorriso sulle labbra; un aberrante lavaggio del cervello, talmente efficace e persuasivo che esistono schiere di malate fermamente convinte della veridicità di questo schema di pensiero a dir poco perverso. Donne sicure che la loro prognosi dipenda esclusivamente dal loro atteggiamento mentale, dal fatto di “rimanere positive”, e di “combattere strenuamente”: solo e soltanto in questo modo la “guarigione” sarebbe garantita.

Ho ereditato da mia madre un gene – si chiama Palb2 – che mi ha portata a sviluppare il cancro al seno nel 2015, all’età di 35 anni; la mia mamma si ammalò invece a 30, per morire sei anni dopo, in un decennio in cui l’eventuale natura genetica della malattia non veniva nemmeno presa in considerazione; naturalmente il mio è un giudizio di parte, filtrato dall’amore incondizionato di una bimba, ma non ricordo una donna più divertente, solare, vitale di lei. Sempre pronta alla battuta, intelligente, caustica sino all’ultimo respiro: il profilo ideale di una “guerriera”, direbbero in molti. Come possono spiegarmi questa “sconfitta” gli assertori del “think-positive-pink”? Mia madre non ha forse “lottato abbastanza”? La sua prematura dipartita è dunque… un po’ colpa sua? Qui il pensiero diventa sdrucciolevole, e si biforca. Certamente avrà avuto dei “brutti pensieri”, diranno i novelli positivisti, delle angosce profonde delle quali non era nemmeno consapevole, che hanno fatto sì che soccombesse sotto i colpi di metastasi divoranti. Del resto, “si sa”, il cancro è psicogeno. E poi, in che anno si era ammalata? Il 1984? Via, letteralmente un altro secolo! Ora la ricerca ha fatto passi da gigante, e grazie ai salvifici, galvanizzanti nastrini rosa, fiumi di denaro di ogni conio sono stati devoluti perché finalmente le donne potessero avere ragione di quel mostro implacabile e subdolo che fiacca, sfregia e svuota prima di finirti.

Mi viene in mente un coraggioso documentario risalente a qualche anno fa, Pink Ribbons, Inc.: per certi versi andrebbe integrato – appartiene per un soffio a un’era pre genetica – ma rimane in linea generale di un’attualità dolorosa e bruciante; fra le svariate riflessioni proposte, a suo tempo mi colpì una considerazione formulata dalla senologa Susan Love, ex ricercatrice, discostatasi dalla comunità accademica alla luce di un pensiero che io, una povera profana, avevo formulato essenzialmente negli stessi termini.

La dottoressa raccontava di avere smesso di operare nel 1998, dopo vent’anni di attività: la motivazione, elaborata nel corso del tempo sino a condurla a una scelta tanto radicale per una medica, era il fatto di non vedere sostanziali progressi nel metodo di approccio. “Tagliare, bruciare e avvelenare”: è questo che si faceva nel 1978, e che si continuava a fare vent’anni dopo, soltanto in proporzioni diverse; ed è il medesimo pensiero germogliato nella mia mente di semplice paziente, che si è trovata ad affrontare la sua diagnosi nel 2015, trentuno anni dopo quella di sua madre. Mentre l’equipe – meravigliosa – di specialisti che tuttora si occupa di me era intenta a snocciolarmi la strategia terapeutica da mettere in campo, una domanda rimbombava nella mia mente confusa e spaurita: “ANCORA…? Siamo ancora a questo, bisturi, chemio e radio? In 30 anni non hanno trovato veramente nulla di più?”.

Sì, è vero, ora i farmaci chemioterapici sono più mirati ed efficaci, e gli effetti collaterali meno invasivi; certo, la chirurgia è dilacerante, ma è anche un dato incontestabile che la plastica ricostruttiva odierna si sia spesa alacremente nel tentativo inesausto e talvolta persino ardito di restituire alle pazienti un simulacro di corpo femminile, che aiuti a non rendere un inferno senza redenzione il loro futuro rapporto con lo specchio da una parte, e con il partner dall’altra; infine, se hai la “fortuna” di avere avuto in sorte una neoplasia sensibile agli ormoni, è possibile somministrare una terapia per azzerarli.

Non hai figli? “Si può essere madri in tanti modi, pensa a stare bene tu”, ti dicono le donne “sane”, mentre fanno sparire frettolosamente il cellulare, pieno zeppo di foto dei loro pargoli. Anche le persone animate dalle migliori intenzioni, massimamente rifuggono le confidenze o gli sfoghi che spesso sono loro ad aver sollecitato: al primo cenno dell’abisso disvelato, si affrettano a interromperti, dichiarando “che ti capiscono”, o che “non devi mollare” (come se dipendesse da te!), o ancora che “SEI GUARITA”.

Ecco, questa è la migliore, la mia preferita: la stessa gente che magari acquista con entusiasmo ogni gadget correlato al nastro rosa gli si pari innanzi, e che arriva a donare regolarmente discrete somme di denaro destinate a trovare “la CURA”, ti dichiara al contempo mondata da un male che, di fatto, curabile non è. La distinzione fra “terapia” e, appunto “cura”, è dirimente, ma evidentemente sfugge ancora a molti.

E quell’emorragia di capitali, tutti i milioni, i miliardi donati negli anni per foraggiare la ricerca, a cosa sono valsi? Quali risultati strabilianti possono vantare i team di scienziati che hanno immolato le loro esistenze sull’altare della lotta al carcinoma mammario? Pochi, mi verrebbe da dire, eterodiretti e un po’ miopi: si insiste nel percorrere le medesime vie in luogo di cercarne di nuove, si preferisce perfezionare l’ennesimo farmaco chemioterapico invece di parlare più diffusamente di genetica, provando a ragionare sugli scenari di cura che potrebbe aprire. Si ripete alla nausea la stanca litania sul fare attività fisica, mangiare sano, non fumare e sottoporsi regolarmente agli esami diagnostici del caso, mentre si affronta con disagio e pregiudizio il tema della chirurgia preventiva. Grottesco a dirsi, ma ci è voluta una star di Hollywood affinché una larga fetta di opinione pubblica venisse a conoscenza dell’esistenza dei tumori ereditari.

Ma in fondo, che cosa pretendiamo noi pazienti? Abbiamo già la trinità delle terapie, la “taglia/brucia/avvelena” – e non vale nemmeno per tutte, provate a raccontarlo a una tripla negativa…-, a cinque anni dalla diagnosi la percentuale di sopravvivenza è altissima – ma non provate a domandare come si mettono le cose dopo venti, di anni, quando concretamente il rischio di recidiva torna quello di una donna “normale”. Con gli spiccioli dei proventi del loro commercio infame, questi venditori di fumo, munifici colossi del marketing, hanno cesellato ad arte una favola a lieto fine per propinarcela nella confezione più gradevole e leziosa possibile. Alla faccia di quelle stronze che ancora si ostinano a morire, di cancro al seno.

Ottobre volge al termine, anche quest’anno sono riuscita a ignorare con sufficiente maturità il tracimare di fiocchetti, cuoricini in bacheca e selfie di solidarietà (?!?), ma chi può dirlo? La terapia ormonale è una bestia imprevedibile, l’insonnia e le caldane possono giocare tiri mancini. Mancano ancora un paio di giorni al 31, domani potrei svegliarmi preda di una bizzarra ispirazione, un uzzo capriccioso… Uscire di casa, scovarne quanti più mi riesce, e poi dare fuoco uno a uno, a quei fottuti nastri rosa.

Risorse per approfondire

Le Amazzoni Furiose, blog della storica e attivista Grazia De Michele.

Im/Paziente. Un’esplorazione femminista del cancro al seno, libro francese di Mounia El Kotni e Maëlle Sigonneau, pubblicato in Italia da Capovolte nella traduzione di Silvia Nugara.

Pink Ribbons Inc., documentario di produzione canadese del 2011, sottotitolato in italiano dalle attiviste del gruppo Oltre il nastro rosa.

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