Guardarsi indietro per andare avanti
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Avviso sui contenuti: menzione di violenza sessuale e medica.
Amy Berkowitz, Tender Points, Timeless, Infinite Light, Oakland 2015. L’articolo contiene alcuni estratti tradotti da me. Nota: nel 2019 la casa editrice Nightboat Books ha pubblicato una nuova edizione arricchita da una postfazione.

Un volume sottile, di piccolo formato, con la copertina viola, un colore spesso associato alle malattie croniche. Mi chiedo se sia una coincidenza. Ci sono dei fori in sostituzione di alcune lettere della dicitura “tender points”, stampata più volte fino a saturare lo spazio a disposizione, dai quali si intravvede il nero della pagina sottostante. Sono i buchi neri della memoria che fanno parte della storia di Berkowitz. Anzi, sono la storia.
Premi qui e ti dirò se fa male. Ora premi qui. Ora qui.
Tutto ciò che devo fare è dirtelo. Tutto ciò che devi fare è credermi.
I tender points sono delle specifiche aree dolenti alla digitopressione e rappresentano il principale criterio diagnostico per la fibromialgia, che allo stato attuale non può essere rilevata da esami di laboratorio o strumentali. Questo significa che per la diagnosi ci si avvale di quanto riportato dalla paziente, nella speranza (sì, speranza) che i sintomi vengano presi in considerazione e trattati in modo adeguato.
E riconosco la faccia del mio stupratore
In ciascuno di questi dottori
Ho passato il 2005 a ricreare il mio stupro
Senza averne il sentore
Per quanto le cause della sindrome fibromialgica non siano state ancora chiarite, in relazione alla propria condizione Berkowitz riferisce di averne individuato l’origine: il trauma derivato da una violenza sessuale perpetrata dal pediatra durante una visita quando lei aveva 10 anni. Un evento sepolto nella memoria e che riemerge molto tempo dopo, quando l’autrice poco più che ventenne sviluppa dei sintomi dolorosi nell’area vulvare, circostanza che la sprona a sottoporsi ad accertamenti che si concludono con la diagnosi di vulvodinia, ottenuta dopo aver consultato svariati medici (“maschi, bianchi, privi di compassione”), i cui volti si sovrappongono, mescolandosi, fino a ricordarle il suo assalitore. È proprio una brusca visita ginecologica a far riaffiorare il passato e da lì, prendendo coscienza di questa rivelazione, il dolore, fino a quel momento silenziato, si fa spazio diffondendosi in tutto il corpo.
L’esperienza del dolore cronico come manifestazione tangibile del trauma scaturito dalla violenza subita è una chiave di lettura scomoda, che può suscitare un certo disagio tra le persone con malattie croniche “invisibili”, poiché ravviva quel timore condiviso di veder ricondotti a una “questione emotiva” quei sintomi già valutati inaffidabili o di poco conto da una società, supportata anche da talune convinzioni della comunità scientifica, che continua a riservare scarsa considerazione verso sindromi impattanti quali la fibromialgia e la vulvodinia da un lato e la salute mentale dall’altro.
La prospettiva esposta dall’autrice ha messo a dura prova il mio sistema di credenze, innescando una lotta intestina tra il bisogno di aggrapparmi a cause organiche “scientificamente provate” — e mentre scrivo mi accorgo di quanto la mia sia in realtà una posizione scivolosa —, perché in apparenza più “sicure” nella loro illusione di recupero del controllo, rigettando le tesi che non rientrano in questa precisa cornice, e la volontà di pormi in ascolto senza pregiudizio, acquietando l’impulso ad allontanare vissuti diversi dal mio, validi anche quando avanzano proposte o conclusioni differenti e non solo quando c’è un terreno comune in grado di favorire una più immediata accettazione.
Per quanto non riesca a emanciparmi dall’idea che l’aver indicato il trauma come unica causa scatenante del dolore rifletta una visione parziale, al contempo non mi è possibile ricusarne in toto la funzione di innesco. Inoltre, vale la pena segnalare che le parole di Berkowitz non suggeriscono verità granitiche, sono invece tese a elaborare quello che le è successo riscattando la sua esperienza di sopravvissuta alla violenza sessuale ed esternando la necessità di riportare l’attenzione sull’inscindibilità di mente e corpo. Per poter guarire, entrambi richiedono cura.
Cosa accade quando qualcosa che non ha ancora un nome ne riceve uno per la prima volta?
E se il nome fosse sbagliato?
Odio la Teoria dei cucchiai.
Odio la Teoria dei cucchiai perché ci piace così tanto.
Odio la Teoria dei cucchiai perché ci siamo accontentat*.
Odio la Teoria dei cucchiai perché ci meritiamo di meglio.
Berkowitz alterna prosa e poesia, in una narrazione frammentata, senza un ordine cronologico, suddivisa in capitoli molto brevi, talvolta composti da poche parole disseminate qua e là sulla pagina, e che non lesina sulle citazioni, con riferimenti a testi che trattano il tema del dolore, la violenza di genere e la cultura dello stupro, l’attivismo nell’ambito della salute. Non manca nemmeno la classica stoccata al famigerato episodio di Sex and The City in cui la vulvodinia viene sminuita e su cui, all’epoca della messa in onda, si era espressa anche la National Vulvodynia Association.
Nel raccontare il proprio percorso con la malattia, l’autrice esprime una sincera gratitudine nei confronti dei gruppi di auto mutuo aiuto, preziose fonti di supporto morale e informazioni pratiche. La loro frequentazione la porta a interrogarsi sul gergo delle malattie croniche, chiedendosi se sia opportuno utilizzare termini “coccolosi” che addolciscano la comunicazione del dolore o di analogie potenzialmente fuorvianti e addirittura controproducenti, perché non aiuterebbero a rendere più comprensibile la malattia a chi non ce l’ha, rischiando inoltre di inficiare la credibilità del resoconto del dolore avendo come interlocutore un contesto patriarcale. Ma, pur accodandosi a Sontag nel rifiuto della metafora in favore di un linguaggio più diretto e asettico, conclude con una parziale concessione nel riconoscerne l’efficacia all’occorrenza.
Mentre approfondisco la storia delle malattie invisibili, sono sorpresa e divertita nel diagnosticarmi l’isteria.
Sorrido e annuisco. Quando ci si accorge di quanto nel corso dei secoli la medicina si sia distinta per la sua misoginia, facendoci passare un po’ tutte per isteriche, affidarsi al senso dell’umorismo può essere un’iniziale misura di pronto soccorso. Poi, si può procedere a smantellare tutto.